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Recensione “La scatola dei bottoni di Gwendy” di Stephen King e Richard Chizmar

Gwendy Peterson ha dodici anni e vive a Castle Rock, una cittadina piccola e timorata di Dio. È cicciottella e per questo vittima del bullo della scuola, che è riuscito a farla prendere in giro da metà dei compagni. Per sfuggire alla persecuzione, Gwendy corre tutte le mattine sulla Scala del Suicidio (un promontorio sopraelevato che prende il nome da un tragico evento avvenuto anni prima), a costo di arrivare in cima senza fiato. Ha un piano per l’estate: correre tanto da diventare così magra che l’odioso stronzetto non le darà più fastidio. Un giorno, mentre boccheggia per riprendere il respiro, Gwendy è sorpresa da una presenza inaspettata: un singolare uomo in nero. Alto, gli occhi azzurri, un lungo pastrano che fa a pugni con la temperatura canicolare, l’uomo si presenta educatamente: è Mr. Farris, e la osserva da un pezzo. Come tutti i bambini, Gwendy si è sentita mille volte dire di non dare confidenza agli sconosciuti, ma questo sembra davvero speciale, dolce e convincente. E ha un regalo per lei, che è una ragazza tanto coscienziosa e responsabile. Una scatola, la sua scatola. Un bell’oggetto di mogano antico e solido, coperto da una serie di bottoni colorati. Che cosa ottenere premendoli dipende solo da Gwendy. Nel bene e nel male.

Mi accingo a leggere un racconto di King con la riverenza che si ha con i maestri. Una riverenza che non riesco a mantenere, pagina dopo pagina, troppo presa dalla storia. Mi sforzo di fare caso allo stile, ai suoi escamotage, a tutto quello che posso imparare da lui, ma la forma è impalpabile, vedi solo la ragazzina, le immagini, l’atmosfera, e non puoi fare a meno di cadere dentro la trama.

È un racconto, non un romanzo, e quindi lo leggo in un paio d’ore, col batticuore, con un climax che sale senza farsi notare, e un finale che si spegne senza il botto.

A molti lettori i finali di King non piacciono. A me lasciano qualcosa.

Rivivo la storia con un’ottica nuova, con un appiglio che ha lasciato nelle ultime righe. E penso che sia una metafora. Che quella scatola ce l’hanno tutti coloro che scrivono. Che quei dolcetti sono i piccoli piaceri che proviamo per noi stessi, che quei pochi soldini probabilmente li guadagna più King di noi, ma rappresentano quelle piccole soddisfazioni monetarie che la nostra passione riesce a generare. La scatola dei bottoni: i nostri desideri, le nostre passioni, il nostro impegno. La nostra responsabilità nei confronti di noi stessi e del mondo. Il pericolo di usare tutto questo senza uno scopo, a fin di bene o a fin di male.

È una recensione strana, la mia. Se vi piace questo stile, è quello che troverete nel racconto che vi accingerete a leggere: tempo presente, terza persona, come una storia di paura narrata una sera davanti a un fuoco. Una storia che scorre veloce in avanti, senza troppi approfondimenti psicologici e con molta azione.

L’atmosfera horror non permea l’aria. È più una sensazione, un sottile brivido che continua a stimolare la lettura per vedere cosa accadrà. Non è un racconto macabro, è adatto a una lettura anche giovanile.

Ma, come dicevo, a differenza di molti critici che non hanno apprezzato la leggerezza e la brevità del racconto, io ci ho visto anche una metafora che rende la lettura meritevole e speciale, un significato che ognuno di noi può dare. Insomma, quel tocco in più, che solo i maestri sanno dare anche alle piccole storie.

Gwendy torna in camera senza aprire bocca e si infila le scarpe da tennis e una felpa. Riflette se arrampicarsi su per la Scala del Suicidio ma decide di no, temendo di soccombere all’impulso di buttarsi di sotto. Invece corre in tondo per quattro chilometri all’interno del quartiere, i passi a riecheggiare cadenzati sull’asfalto gelido, l’aria frizzante dell’autunno ad arrossarle le guance. Sono stata io, pensa, immaginando sciami di mosche sui bambini morti. Anche se non volevo farlo, sono stata io.

 

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