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Recensione “Cuori in prigione” di Yamila Abraham

Condannato a venticinque anni per spaccio di cocaina, e rinchiuso in un carcere federale, Ryan Burgess deve adattarsi alla vita della prigione che per lui inizia con l’isolamento. Il giorno in cui assiste all’omicidio a sangue freddo di uno dei detenuti, per un regolamento di conti tra blocchi, decide che ha bisogno di protezione, anche se questo vuol dire affidarsi a Harrison e diventare la sua puttana.
Harrison è rinchiuso in carcere da ben ventiquattro anni. Il suo traffico di droga, all’interno dell’istituto, prospera grazie a guardie corrotte, scambi di favori e soprattutto grazie alla regola numero uno: in prigione ognuno pensa a se stesso.
Quando Ryan gli chiede protezione, specificando che non sarà la sua cagna, Harrison lo asseconda perché, da quando quel ragazzo così giovane è arrivato, ha capito che forse, dopotutto, anche in prigione si può trovare un angolo di felicità.
E quella felicità è il cuore di Ryan.

Parto con un appunto: Yamila Abraham è un’autrice affermata di graphic novel Yaoi, tra le altre cose, e la cover originale mostra i due protagonisti vestiti da carcerati, uno piccolo e spaventato, l’altro grande e possente. Perché sostituirla con un’immagine identica a tantissime altre?

Per quanto riguarda la recensione vera e propria… è un romanzo difficile da inquadrare. Ryan, diciottenne figlio di papà, finisce in prigione per caso, e ne percepiamo tutto il terrore rispetto a ciò che di brutto potrebbe capitargli, in particolare il fatto di essere violentato.

Che cazzo era un commissario? Come potevano lasciare entrare una persona così incompetente come me in questo ambiente?

 È fortunato, perché finisce sotto l’ala di una persona per bene, Ray (viva la fantasia), che gli offre protezione in cambio di un accordo che non include il suo corpo.

La storia è cruda, purtroppo realistica, ed è naturale immedesimarsi nei panni di un detenuto (americano, per lo meno) che non è un delinquente prima di entrare, ma è costretto a fare dei compromessi e a crescere prima del tempo.

Sapevo di dover maturare ancora un po’. Dopo. Per il momento ero entrato in modalità sopravvivenza.

Lo stile narrativo calza bene con l’ambientazione, però non è freddo: è una prima persona abbastanza diretta e “maschile”, cioè priva di fronzoli e seghe mentali, ma, in particolare nelle scene di sesso, è molto coinvolgente e attenta ai dettagli. I dialoghi sono essenziali e quasi “surrealisti”: possono essere capiti o non capiti, e all’autrice poco importa, l’importante è l’efficacia della scena (non aiuta il fatto che i due protagonisti abbiano praticamente lo stesso nome).

– Ti amo, ragazzino, lo sai?

– Anch’io ti amo.

– Ed è vero? Lo senti?

– Non in modo romantico – gli risposi.

– Ah, certo. Ecco il cazzo di avvertimento. Butti l’osso e poi lo riprendi – brontolò Harrison

 Quella che mi è mancata è stata tutta la parte emotiva. I due paiono innamorarsi così velocemente che ci si chiede se è vero o se ci stanno scherzando sopra. E forse la stessa cosa pensa lo stesso Ryan, che più volte ribadisce che non sa esattamente come definire quello che gli sta succedendo. Forse semplicemente, cede alla realtà. Forse sceglie il male minore, e la cosa ci può stare, non fosse che questo sentimento perdura durante tutta la detenzione e pare assumere un carattere davvero importante.

Forse questo senso di smarrimento è voluto, e solo all’inizio le cose nascono per caso… voglio dire: i protagonisti si trovano in prigione, dove l’orientamento sessuale non è un’opzione. Neppure il compagno con cui ci si trova in sintonia è un’opzione; inoltre, nelle apparenze Ryan deve sembrare inequivocabilmente una proprietà di Ray.

È il passo che ha portato dalle apparenze alla realtà che non è stato facile per me, e ho dovuto fare un grande atto di fede per dare credito all’ultimo terzo della storia (quello più interessante: l’avrei letto comunque 😉 ).

Eravamo stati sessualmente intimi ed eravamo stati bene, e la mia mente ora riusciva a elaborare tutto quello come un qualcosa di romantico. Come cavolo avrei dovuto chiamarlo? Nonostante tutto, non mi sentivo gay.

Le scene hot sono davvero bollenti, purtroppo concentrate solo nell’ultima parte del romanzo: una volta che la loro relazione prende il volo, infatti, la storia inizia a balzare in avanti saltando manciate di anni alla volta, argh.

Mi poggiai di nuovo su di lui, le mie gambe sembravano gelatina. Riprendemmo a baciarci appassionatamente, mentre Harrison giocava con i miei capezzoli con la mano libera. Questo mi fece diventare di gelatina anche il petto, oltre le gambe.

Concludendo, sono davvero in difficoltà nell’assegnare un giudizio. Lo stile è perfetto: coinvolgente, intenso, ma allo stesso tempo snello e non ridondante. Duro, se possibile; coerente con l’ambientazione, senza però raggiungere le tinte di un dark. C’è perfino una punta di dominazione consensuale che rende davvero spinte le scene più intime.

Dare a Harrison quello che voleva più di ogni altra cosa al mondo, era un’idea allettante per me, avrei solo preferito che la cosa non significasse avere il cazzo di qualcuno su per il culo.

Ray è un buon “paparino” per Ryan e lo tratta sempre bene e con rispetto, conquistandolo senza forzare mai la mano. Non so neppure dirvi come lo conquista, nel senso che non lo vediamo mai né interessato, né voglioso, né affettuoso. Ryan cade da solo, a causa dei momenti passati insieme, per l’intimità che si crea tra loro, intimità che ci viene raccontata in poche righe prima che Ryan si scopra disposto a fare un passo in più.

Probabilmente le tre stelle e mezzo è poco, data l’intensità e la piacevolezza della lettura, ma quattro sarebbero troppe, visto il pezzetto mancante su come nasce un amore che è destinato a durare anni, trasformando in gay due persone etero.

Avevo cominciato ad amarlo in un modo così tenero, che non aveva niente a che fare con le mie esperienze passate. Avevamo lo stesso livello di intimità che avrebbe avuto un gruppo di migliori amiche.

 A voi la lettura, adesso!

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