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Recensione: “La lingua perduta delle gru” di David Leavitt

 Buongiorno Fenici, oggi Ipanema ci parla di “La lingua perduta delle gru” di David Leavit

«I miei genitori sono gente aperta. Non resteranno annientati dalla notizia» pensa Philip Benjamin, il protagonista di questo romanzo nel momento in cui, a venticinque anni, si appresta a rivelare alla famiglia la propria omosessualità. Eppure per Rose e Owen, piccoli intellettuali nella sfavillante New York degli anni ottanta, la scoperta delle inclinazioni amorose del figlio apre una crepa dapprima sottile, poi sempre più profonda e insanabile, nel delicato equilibrio affettivo familiare, costringendoli a fare i conti con la propria più intima natura, le proprie scelte, le proprie responsabilità. Ma in questo paesaggio familiare desolato, in questo sfacelo di relazioni personali, Philip, e non solo lui, saprà individuare la strada per la costruzione di una vita sentimentale flessibile, realistica, libera, ma saldamente ancorata all’autenticità e alla sincerità. Postfazione di Fernanda Pivano.

Philip Benjamin è innamorato. Di Elliot Abrams, giovane eclettico e figlio adottivo di due omosessuali, nella Manhattan inizio anni ‘80. Philip è gay e vuole dirlo ai genitori; è sicuro che questa rivelazione non scioccherà i suoi, che sono persone aperte, intellettuali, gente che lavora nel mondo dell’editoria e che vive i ferventi anni ‘80 di una New York pre-depressione e pre-AIDS in modo semplice e discreto ma senza preconcetti né pregiudizi. Almeno così lui crede.

Invece il mondo di Rose e Owen Benjamin, alla rivelazione del loro figlio Philip si sgretola in pochi istanti: tutto ciò di quello che in venticinque anni di vita insieme – una vita silenziosa e insipida, lo ammette pure Rose, senza sospiri né brividi, senza passione né tremiti, di questo ne è consapevole, se per averli ha dovuto, pur in silenzio e con estrema discrezione andarli a cercare altrove, in altri letti che non fossero quelli dove dorme con suo marito – si corrode e corrompe. Owen piange. Si sente in colpa. Non è stato un buon padre. Ha un segreto inconfessabile e reputa questo la causa del “problema del figlio”.  Rose non parla a Philip, fa fatica persino a guardarlo negli occhi. Perché? E’ arrabbiata con lui per ciò che è? O perché, come lei, ha deciso di non rispettare la consegna del silenzio e della discrezione, ma di vivere la sua omosessualità e il suo amore apertamente?

Comunicazioni che si interrompono, linguaggi che non si raggiungono. Anche se, come Michael, il “bambino delle gru” – di cui Leavitt ci racconta in un breve capitolo a metà del romanzo,

Ciascuno, a modo suo, trova ciò che deve amare e lo ama; la finestra diventa uno specchio; qualunque sia la cosa che amiamo, è quello che noi siamo.

Il romanzo di David Leavitt è un affresco, a volte luminoso e colorato, altre umido e piovigginoso, come le giornate a Manhattan dei primi anni ‘80. Passeggiate lungo le strade della Grande Mela, di giorno e a notte fonda, a respirare il puzzo dei liquami, dei gas di scarico dei palazzi e l’aroma dolciastro delle panetterie, a incrociare lo sguardo dei passanti frettolosi e intirizziti dal freddo, ad entrare di soppiatto nei pornoshop e nei gay bar. La vita dei protagonisti si dipana attraverso momenti di quotidianità e straordinario, amplessi infuocati e passioni respinte, dolore e sconforto, sensi di colpa e incredulità attonita.

Un romanzo importante per i temi che mostra, più che raccontare, e per le splendide atmosfere newyorkesi che evoca.

Una menzione d’onore alla post-fazione di Fernanda Pivano, una stellina in meno per l’incongruenza di traduzione (“Nel primo pomeriggio di una piovosa domenica” le prime cinque battute dell’inizio, “cosa ci faceva lui in mezzo a una strada in una fredda mattina domenicale” solo venti righe più sotto) che nemmeno cinque ristampe hanno saputo correggere.

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