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Recensione: La casa delle torture di Jason K. Foster

 

Una commovente storia vera
Una storia ambientata nell’ospedale psichiatrico più brutale e ignobile della storia.

La Germania è caduta sotto il giogo di Hitler e la politica nazista, sempre più intollerante, rende la vita estremamente difficile alle persone che il regime non include nella fantomatica razza ariana. Persone come Ingrid Marchand, la cui unica colpa è quella di essere nata con la pelle scura. Quando comincia a soffrire di crisi epilettiche, Ingrid scopre un volto del regime ancora peggiore: viene arrestata e mandata nell’istituto di Hadamar, un luogo terribile in cui i soggetti considerati “indesiderati”, inclusi i bambini con disabilità fisiche o mentali, vengono torturati ed eliminati. Ingrid subirà ogni tipo di umiliazione. Privata di qualsiasi diritto e circondata dall’odio dei suoi aguzzini, conoscerà fino in fondo la violenza che anima il regime nazista e dovrà lottare quotidianamente per sopravvivere. Ma, anche nel più orribile dei luoghi, qualcuno le tenderà la mano. E quella mano le permetterà, caduto Hitler, di ricordare, denunciare e, infine, ricominciare a vivere.
Hadamar, “la Casa delle Torture”, era un centro per l’eliminazione di malati e disabili nella Germania nazista. Ingrid vi fu rinchiusa per il colore della sua pelle.
Questa storia dà voce alle vittime dimenticate, finora escluse dalla narrativa sull’Olocausto.

 

 

Sento il dovere, prima di iniziare la mia recensione, di ringraziare l’autore di questo libro che ha raccontato, seppure sotto forma di fiction storica, una vicenda semisconosciuta della Seconda guerra mondiale.

Il famigerato programma T4 volto all’eliminazione dei bambini deformi e con disabilità mentali, è tristemente famoso ma non ci sono molte testimonianze dirette di sopravvissuti perchè la furia omicida nazista colpiva i più deboli, i più inermi, coloro che da soli mai avrebbero potuto ribellarsi.

La cosa più tragica fu che gli stessi tedeschi ritennero giusto liberarsi dei più “inutili” per la società che volevano splendidamente e luminosamente ariana.

Tra gli imperfetti della società tedesca ci furono anche i meticci, i figli di coppie miste e proprio una di loro è la protagonista di questa storia. Ingrid è una bella ragazzina che viene strappata alla sua famiglia e deportata nell’ospedale di Hadamar, un orrendo buco nero in cui chi entra non uscirà se non sotto forma di fumo dei forni crematori.

È sveglia e in gamba e verrà impiegata inizialmente come aiutante, ma solo momentaneamente, perchè la sua fine è già decretata e mentre vede sparire giorno per giorno i bambini e le bambine intorno a lei, assisterà all’infame macchina della morte.

Dotata di una forza di volontà ferrea spesso macchiata da momenti di sconforto in cui anch’essa desidera morire, arriverà fino al giorno in cui i cancelli della sua prigione saranno aperti dagli americani decretando l’arresto dei medici e del personale assassino qui impiegato.

Si apre un nuovo capitolo della vita di Ingrid che da vittima si trasformerà in testimone e permetterà la condanna dei responsabili dell’ospedale.

L’autore segue con dovizia di particolari gli atti del processo che avvenne realmente e ci racconta, con amarezza, come a distanza di anni i medici coinvolti e l’infermiera Huber, che si erano macchiati di centinaia di omicidi e che con lucida follia li avevano giustificati come necessari, uscirono dal carcere tornando in libertà.

Indegno e mostruoso di un paese civile.

Una storia terribile ma doverosa in memoria delle vittime inermi stritolate nell’ospedale di Hadamar: non solo ragazzi disabili ma malati mentali, vecchi, meticci, prigionieri russi e polacchi che finirono nelle fosse comuni e nei forni crematori.

Una storia che ha molto da insegnarci ancora oggi e che permette di testimoniare quanto l’uomo fu capace di cose orribili contro i suoi simili.

C’era ancora tanto per cui valeva la pena vivere, o almeno così speravo. Un giorno io sarei davvero uscita da questo posto, e avrei cercato di vivere la mia vita al massimo delle mie possibilità. Adesso sapevo che il modo migliore per dimostrare che non ci stavo, per ottenere giustizia in nome di tutti i ragazzi che erano morti, era restare viva. Ci avevano provato, a uccidere anche me, e non ci erano riusciti. 

 

 

 

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