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Recensione: “Il quarto e il quinto” di Luca Vanoli

Capodimonte, settembre 1659. Don Bonifacio, curato del paese, si è assopito nel confessionale quando la voce di una donna misteriosa gli annuncia che lo spirito di una fanciulla ha preso possesso della sua volontà per indurla a commettere azioni tremende contro suo padre…

Un mese dopo l’avvocato Tullio Corbet viene convocato con urgenza a Roma dall’amico di lunga data, il gesuita Padre Seàn; la Curia Pontificia ha di nuovo bisogno dei loro servigi per risolvere un caso dai risvolti inquietanti: il conte di Capodimonte sta esercitando pressione sul pontefice affinché acconsenta a sottomettere la sua primogenita, Bianca, a un esorcismo. In seguito ad alcuni incidenti, si è persuaso che l’anima della figlia sia caduta sotto il controllo dello spirito di Beatrice Cenci, la vergine parricida, tornata a reclamar vendetta per l’ingiusta condanna a morte subita sessant’anni prima in Roma.
Giunti sulle rive del lago di Bolsena, i due investigatori saranno avvolti da un’atmosfera fredda e cupa. Ben presto i timori del conte diverranno realtà e ogni indizio sembrerà accusare proprio Bianca.
Ma Corbet, per nulla convinto delle apparenze, sfiderà l’ira del conte e della Curia pontificia per dimostrare la sua innocenza, assumendo il ruolo di avvocato difensore in un durissimo processo, dinnanzi a un tribunale criminale determinato ad usare ogni mezzo consentito per giungere alla sentenza più giusta.

Il nuovo romanzo di Luca Vanoli si presenta da subito come un’opera intrigante e misteriosa che si muove su più piani narrativi, dipanando l’intera vicenda con numerosi flashback e ben due trame parallele ambientate nel passato che fanno da controcanto alla vicenda principale. La storia si apre nell’anno domini 1659 in quel di Capo di Monte con un prelato di campagna e una rivelazione sconvolgente e misteriosa. Da lì in poi verranno introdotti i vari personaggi i quali si muovono e interagiscono raccontandosi e mostrando alcune cose di sé, in un gioco infinito di specchi e misteri dove quasi mai la realtà è come appare. Un affresco storico egregiamente ricostruito in cui due uomini, che rappresentano la ragione e la fede, sono chiamati a far luce su un delitto commesso all’interno di una misteriosa sequela di eventi. Uno è un avvocato di nome Tullio Corbet, geniale e dal passato turbolento e che troviamo ora in una ridente Bologna felicemente sposato e con un piccolo pargolo a riempirgli il cuore di gioia, l’altro è Padre Sean, un gesuita irlandese dal passato di combattente per la fede, rigoroso e talvolta definito dagli altri personaggi “pedante e rigido”. Queste due figure così diverse, attraverso una serie di indagini e ragionamenti, seguono lo scottante caso al centro della storia alla ricerca di una verità degna di questo nome, spesso combattendo contro superstizioni e brutture di una società a volte gretta e ottusa.

Gli altri personaggi che si muovono lungo l’arco narrativo appaiono sempre meravigliosamente rappresentati con i loro difetti, le loro debolezze e i loro carichi di misteri, lentamente portati alla luce come frammenti di un mosaico tutto da ricomporre.

All’interno della trama vi sono però altri due filoni narrativi che accompagnano la storia principale. Il primo ci viene presentato attraverso un misterioso memoriale risalente agli ultimi anni del ‘500 che è usato dall’autore come espediente per poter narrare e farci riflettere sulle vicende cruente e terribili occorse in quegli anni alla nobildonna Beatrice Cenci, appena ventenne, che aleggia come un fantasma sull’intera trama.

Il secondo è invece una sorta di racconto intermezzo della vita amorosa dell’Avvocato Corbet quando, giunto a Bologna, affronta uno spinoso caso con l’aiuto di una donna che diverrà poi sua sposa.

Se per la storia della Cenci il nesso con i fatti oggetto della narrazione principale è immediatamente chiaro, per la seconda trama afferente all’incontro di Corbet con la sua sposa non sempre se ne comprende il nesso, tanto che a volte appare stucchevole se non fuori luogo il continuo rinvangare sul perfetto idillio fra l’avvocato e la sua sposa, la quale, tra l’altro, nella vicenda principale compare solo all’inizio e alla fine.

Nel complesso il romanzo tocca diverse tematiche, si spazia dalla condizione della donna in quegli anni al concetto di amore filiale, sino a questioni di diritto e a un’interessantissima diatriba fra il sistema processuale squisitamente inquisitorio della Chiesa e quello laico che, in qualche modo, anche grazie all’ingegno dell’avvocato Corbet e alla lungimiranza e alla temperanza del giudice Norberto Delle Piane, inizia a tracciare le basi dell’equo processo che ai giorni d’oggi conosciamo.

In conclusione ritengo che si tratti sicuramente di un romanzo avvincente e godibile, con un finale inatteso, la cui unica pecca sono i melensi riferimenti alla vita sentimentale di Corbet.

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