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Recensione: “Come nascono gli incendi” di Michele Arena

TITOLO: Come nascono gli incendi

AUTORE: Michele Arena

GENERE: Narrativa per ragazzi

EDITORE: Mondadori

DATA DI PUBBLICAZIONE: 20 Ottobre 2020

“Guardi fuori dalla tua camera e vedi palazzi identici al tuo. Li guardi e ti immagini che da un momento all’altro vedrai sbucare dietro una finestra una famiglia esattamente uguale alla tua. Sono felici, ancora uniti, nessuno è scappato via, e nel corpo di tua madre non ci sono cellule impazzite che la stanno uccidendo”. Peccato che quella famiglia non esista. E che, dal momento in cui tua madre, la stramba, dolce, arrabbiata Adele, pronuncia quella parola di sei lettere, tu ti senta perduto, come un biglietto dell’autobus dentro la tasca di un vecchio giubbotto messo via per l’estate. Perché tu lo sai già: quella parola è una bomba atomica che raderà al suolo quel poco che funzionava nella vostra vita e vi farà sentire tremendamente soli. Soprattutto te. E non ti basterà dirti che quello che le sta accadendo potrebbe farti apparire più interessante agli occhi della gente, soprattutto delle ragazze. Non ti basterà avere accanto Rachele, la tua migliore amica e il tuo sogno più dolce, né Ismail, il fratello che nessuno vorrebbe e che tu hai scelto come migliore amico. Non basteranno nemmeno più le vostre serate al distributore di benzina ad ascoltare musica e a parlare di tutto e di niente. Perché le vostre insicurezze vi allontaneranno ogni giorno di più. Perché nessuno vi ha insegnato cosa sentire o dire in una situazione del genere. E allora non ti rimane altro che affrontarlo, il tuo incendio. E anche se spesso, dopo, non restano che macerie, forse stavolta, superato il dolore che ti sta facendo a pezzi il cuore, potresti anche scoprire che non sei mai stato davvero solo e che la tua, la vostra vita andrà avanti e avrà un senso, nonostante tutto.

 

Questo romanzo è un viaggio all’interno del cancro. Scopriremo quello che vive un paziente, ma soprattutto chi gli sta accanto, e quanta solitudine, dolore, frustrazione, senso di colpa questa malattia porti con sé; il peso che diventa gestire rapporti con le persone, dal proprio familiare alla vicina di casa; l’impossibilità di dire addio ai propri cari e la difficoltà di essere forti per se stessi e per gli altri. È un romanzo che ci parla soprattutto di solitudine e dolore.

È il racconto di una donna (Adele) malata di cancro e di tre giovani (suo figlio, Rachele e Ismail). Vivono in un quartiere povero, un ghetto, in Italia. Ognuno è chiuso nel proprio dolore e riesce a trovare poco sollievo dallo stare con gli altri. Ogni protagonista ha una famiglia “rotta” in modo diverso e deve gestire il suo disagio senza l’appoggio di nessuno.

Non vieni a scuola da mesi e nessuno ti ha chiamato, perché ormai sei quasi maggiorenne e perché fai un istituto professionale per sfigati.

Quindi tranquillo, non sarai circondato da adulti che non sanno che pesci prendere di fronte al tuo dolore.

A dire il vero, i servizi sociali hanno aiutato una di loro, Rachele, fino alla maggiore età, dopo di che l’hanno lasciata andare senza più interessarsene. Per gli altri, invece, non c’è nessuna rete, neppure per quella mezza famiglia con un figlio e una madre malata di cancro. Perfino i medici li fanno sentire colpevoli («Pensava che fumando tutte le sigarette che ha fumato non sarebbe successo nulla?»), di troppo; li trattano con freddezza come semplici numeri.

 «Butta giù una lista delle cose più cattive che le hanno detto» fa Rachele.

In un mondo normale gli ospedali sono posti belli, con dentro persone gentili e sorridenti che ti ascoltano. Ci sono divani nelle sale d’attesa. Qualcuno ha strappato gli stupidi manifesti sui tumori del sangue pieni di bambini tristi e ha messo poster di cantanti e celebrità del cinema. Ci sono distributori gratuiti di bevande zuccherate ed energetiche.

«Perché dovrei farlo?»

«Ci servirà.»

Nessuno dice cose come “non abbiamo tempo oggi”, “i tumori non vengono per caso”, “avrebbe dovuto fumare meno”, “se non si cura nel modo giusto è inutile che venga qui”, “non si lamenti, preferiva avere anche le metastasi?”, “non vede quante persone ci sono in fila dietro di lei?”, “la nausea non ha mai ucciso nessuno”, “siamo di fretta”, “ci sono decine di altri pazienti”, “può smettere di curarsi se non è convinta”, “pensava che fumare non le facesse niente?”, “non deve lamentarsi, anni fa una persona con la sua malattia sarebbe già morta”.

«A cosa?»

Nessuno le dice che “se non è abbastanza forte non guarirà”, come ha fatto il grande capo dei dottori che la visita prima della chemioterapia.

«Fidati di me.»

È un libro molto introspettivo e piuttosto statico. Indaga un problema, ma i ragazzi non hanno un’avventura da compiere, obiettivi, una missione. Sembra girare a vuoto e poi stazionare sul marciapiede del distributore di benzina proprio come i protagonisti, che non sanno cosa fare della loro vita e che devono imparare a crescere senza sapere come.

Ma quando la professoressa d’italiano mi disse che per essere femminista dovevo buttare il velo ho capito che il mio problema non erano le mie radici, o la musica che ascoltavo o l’essere musulmana o l’essere nata qui, che il problema non era la mia religione che mi imponeva di restare vergine e i miei desideri che mi spingevano in un’altra direzione, ma l’insieme di tutte queste cose. Era il contrasto creato su di me dalle pressioni che sentivo a far impazzire gli altri.

E allora ho deciso di tenerle addosso. Tutte quante.

A loro non è stato insegnato il modo di comunicare emotivamente con le altre persone e ognuno è chiuso nel suo piccolo egoismo, gli occhi puntati sui suoi problemi. Anziché dare un abbraccio alla madre e dirle “ti voglio bene”, il protagonista preferisce scappare… la stessa reazione che ha lei. Anziché riallacciare i rapporti con una figlia che se n’è andata via, la madre preferisce imporre al figlio il silenzio sulla loro situazione, caricandolo di un peso troppo grande per lui. Ne risulta una solitudine, una lontananza emotiva che non viene sanata da nessuno.

«Cosa c’è?» fa lei.

Ismail è lontano, tutti sono lontani, ci siamo solo noi due. Mi avvicino ancora di più al suo viso, sorride, e allora faccio per baciarla, ma lei si allontana e dice: «No, non farlo».

Sento l’energia svanirmi dal corpo e diventare nebbia.

Non siamo noi. Sono io, sono soltanto solitudine che si disgrega come gli Avengers alla fine di Infinity War.

«Per favore.»

Gli stessi amici, che sono l’unica forma di vicinanza che hanno questi ragazzi, sono presi dal loro dolore, dalla loro solitudine; sono bolle che si avvicinano ma non si uniscono mai, non si sostengono davvero a vicenda, viaggiano più o meno nella stessa direzione, possono stare nello stesso “bicchiere”, ma non riescono a congiungersi e rafforzarsi l’un l’altro.

Infilato in questo dolore, ai margini, troviamo un amore non ancora maturato e che deve prendere forma.

Fuori l’aria sa di uccelli esotici e cocktail bevuti sulla spiaggia, dico a Ismail che ho voglia di chiamare Rachele, lui dice che sto diventando il suo peluche e i peluche, quando le ragazze vanno a letto, finiscono in terra sul pavimento.

Lo stile, con dialoghi veloci, metafore argute e un lessico fluente, è molto particolare; evocativo con divagazioni che tendono ad approfondire le emozioni, il passato, la storia e le varie forme del disagio di ogni protagonista.

La narrazione è in prima persona da parte del figlio, di cui non scopriremo mai il nome, ma sono inseriti anche i punti di vista degli amici e della madre; sono scritti in seconda persona, come se stessero parlando con il protagonista, e approfondiscono altri aspetti, altre emozioni, altri disagi.

Il libro si legge molto bene, se non fosse che il tema è così drammatico e doloroso. Perfino scabroso nel suo realismo e nella sua schiettezza. La madre a un certo punto dice: “questa storia sarebbe un pessimo film, perché si sa già come va a finire”. E invece ve lo consiglio.

«Mamma, scusa se ti ho deluso.»

Lo dico senza pensarci.

«Pensi che stia male per te?» La sua voce è fredda come l’arredamento dell’ospedale, non è una domanda e io non rispondo, così lei dice: «Non sei tu che stai morendo, sono io, devi smetterla di fare l’egoista».

Facciamo il resto del tragitto di nuovo in silenzio come se fossimo due estranei. Cammino e vorrei dirle che sto facendo il massimo, che ne ho abbastanza di alzarmi la notte per pulire il suo vomito o di passare i pomeriggi a guardarla dormire. Che non ce la faccio più a pulire, a fare la spesa, a preparare da mangiare, a mettere in ordine tutti i suoi esami, ad andare avanti e indietro tra farmacie e dottori. Che non verrò ammesso all’esame di maturità, che non vado a scuola da mesi perché ho la testa piena di pensieri dolorosi, che non è giusto. Ma non dico niente perché ogni volta che le ho detto cose come questa poi lei si è messa a piangere e mi sono sentito l’essere umano più orribile dell’universo. Mi sono sentito come un mostro che tortura e uccide i bambini. Vorrei solo che Consuelo fosse qui con noi perché non ce la possiamo fare da soli, perché sono un egoista. Tutte le mie cellule lo sono.

 

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StaffRFS

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