Titolo: Amiamoci in fretta e Viaggio di nozze in molti
Autore: Achille Campanile
Genere: Umoristico
Editore: Bur
Pagine: 366
Data di pubblicazione: 16 marzo 2021
L’amore è il vero protagonista di questi due romanzi di Campanile, sempre in bilico tra risata e colpo di scena, tra commedia e catastrofe irreparabile, in un gioco dove la fantasia è sfrenata quanto la logica rigorosa. E così un evento banale, quotidiano, come un matrimonio viene rovesciato e trasformato in qualcos’altro da un autore che si diverte a strappare il velo di normalità da personaggi o situazioni.
Se in Viaggio di nozze in molti, fra scambi coniugali e ironiche scoperte sugli amori giovanili al mare, treni sbagliati e sonori ceffoni, ogni cosa si conclude al meglio, in Amiamoci in fretta tutto si svolge nell’arco di ventiquattro ore: un naufragio, una guerra, un’epidemia, varie condanne a morte. E una coppia riesce addirittura a sposarsi e divorziare tre volte consecutive.
Un’esilarante galleria di personaggi, storie e situazioni surreali, per ridere e riflettere sul sentimento che più di tutti tocca e turba gli esseri umani.
Questa riedizione unisce due libri pubblicati rispettivamente nel 1933 e 1946.
Sconcertata dallo scoprire che non si trattava di Rosa Campanile ma di un suo probabile antenato (lo so, starete pensando che prendo i libri a caso, ma la copertina era carina, no?), ho immaginato il peggio notando una Presentazione introduttiva, che di solito anticipa uno di quei classici mattoni del passato. E invece…
AMIAMOCI IN FRETTA (pubblicazione originaria del 1933)
È un racconto divertente con personaggi coloriti, la cui trama sembra proporci un genere giallo salvo poi, a un tratto, volgere al surreale, con tanto di nave sollevata in cielo da una moltitudine di palloncini.
Lo stile mi ha ricordato l’umorismo all’italiana alla Peppone e Don Camillo o all’Alberto Sordi dei primi anni ‘50, con quelle battute (o gestacci) viscerali, spontanee e spicciole ancora non contaminate dall’influenza della filmografia americana.
Mi permette» disse «di parlarle con franchezza?»
«Di’ pure, caro.»
«Ho sentito parlare, testé, del naufragio del Fulminante i.»
«O Fulminante ii, non ricordo bene.»
«Ragione di più. Questo» e Battista indicò la nave che si vedeva in porto dalla finestra «è il Fulminante viii. E tutti gli altri Fulminanti?»
«Affondati.»
«Ecco» concluse Battista, «non vorrei che dovesse affondarsi anche il Fulminante viii.»
Whititterly scoppiò in una risata.
«E che credi» disse «che tutte le navi che si chiamano Fulminante debbano far naufragio? Non ci mancherebbe altro. Ho avuto tante navi che non si chiamavano Fulminante e sono affondate lo stesso. Credi pure, il nome non vuol dir nulla, mio caro Battista.
Il tutto è molto leggero, senza nessuna nota drammatica né romantica né introspettiva. Si capisce che sono anni molto pesanti in cui, attraverso l’intrattenimento, si prova a evadere dalla realtà. Probabilmente, come riporta anche un aneddoto nella premessa, non doveva essere neppure troppo facile scrivere una storia cercando di schivare la censura o la possibile irritazione di un dittatore lunatico. Ne deriva un testo privo di qualsiasi riferimento, neppure casuale, ad argomenti difficili, dubbi o troppo attinenti al quotidiano.
«Luce!» urlò Whititterly. Genzianella corse a cercar le candele. Allora, nelle tenebre… I lettori impressionabili sono pregati di saltare al capitolo seguente. Per i più coraggiosi, cercherò di narrare nel modo meno spaventoso le cose che seguirono.
Lo stile, nonostante sia datato ormai un secolo, è del tutto leggibile, godibile, rapido; ricorda uno di quei film in bianco e nero doppiati in perfetto italiano “fiorentino”, quell’italiano senza accenti dialettali che le maestre insegnavano in modo così rigoroso, preciso, corretto; quello forbito ma colloquiale che tutti vorremmo parlare, ricco di termini non tanto desueti quanto ricercati, che noi non sappiamo più ricordare perché ormai il nostro linguaggio si è impoverito. Nonostante questo, la lettura non risulta ostica, né antiquata, né complicata.
Viaggio di nozze in molti (pubblicazione originaria del 1946)
Il secondo racconto, a mio avviso, non è riuscito bene come il precedente. Premettendo che il mio senso dell’umorismo non è particolarmente sviluppato, ho trovato la narrazione meno divertente. Inoltre, è meno efficace anche la trama, che continua a scivolare su avventure sempre più assurde e paradossali e da un personaggio all’altro, finendo per perdere di vista i protagonisti e l’intero focus che definisce il titolo stesso dopo poche pagine, per venire ripreso sul finale in modo parecchio affrettato.
È vero che, se ci aspettiamo semplicemente una lettura spassosa da portare avanti qualche pagina alla volta, allora possiamo accontentarci di una sequenza di scene divertenti, tuttavia sarebbe stato interessante seguire meglio gli sviluppi dell’evento scatenante, che vede due coppie di sposini, per casualità, scambiarsi coniuge durante il viaggio di nozze.
Perché il detto: «si sa quando si parte e non si sa quando s’arriva» non era applicabile che per metà alla sua macchina. Con essa, difatti, non si sapeva nemmeno quando si partiva. Quella macchina era una vera provvidenza per le officine di riparazioni.
L’ironia gioca sul nonsense e rovesciamenti del politicamente corretto, di comportamenti “perbene”, grazie ai quali si creano dei deliziosi fraintendimenti e un umorismo paradossale (ad esempio premiare per un salvataggio una persona che ha assistito e basta).
«E muoio anch’io se mi tuffo» balbettò Severino. «Si salva lei ma muoio io. O moriremo in due. Che gusto c’è? Non le sembri cinismo ma, scusi, dovendo morire uno è più giusto che muoia lei che già ci si trova.»
Come nel racconto precedente (e come usato spesso in passato, basti pensare a Manzoni), la storia viene raccontata da un narratore palese che espone i fatti in terza persona ma talvolta interviene e si rivolge al lettore. Qui, però, appare più presente e un po’ ripetitivo, finendo per “stroppiare”.
Più abbondanti che nel primo libro ho trovato anche digressioni, descrizioni e riflessioni, come se l’editor, nel frattempo, si fosse arruolato.
Guardatevi, signori, dai libri avvincenti. Io li detesto. Quando me ne capita uno per le mani, passo un giorno o due d’inferno. Perché il libro avvincente mi tiranneggia e non posso liberarmene se non dopo averlo letto tutto d’un fiato. Comincio col non dormire la notte. L’indomani appena alzato riprendo il libro e invece di far toletta mi metto a leggere. Passano le ore. Una specie d’abulìa mi tiene legato al libro e incapace di agire. Dovrei uscire, lavorare. Niente. Salto pagine dal contenuto prevedibile e alla fine il libro diventa un nemico, un tiranno. Debbo liberarmene. Ma non scaraventandolo via, come sarebbe giusto. Debbo arrivare in fondo. A un certo punto mi rassegno e, messe in non cale cose importantissime e a tacere i rimorsi e la voce del dovere, m’immergo nella lettura. Ormai, sordo a richiami interni o esterni, leggo in uno stato che somiglia molto alla deboscia. Verso sera sono arrivato in fondo. Il libro mi ha lasciato con un pugno di mosche in mano, sono pieno di pentimento e di rimorso.
Invece, un libro non avvincente! Vi mettete a letto. Ne leggete qualche pagina e subito vi concilia il sonno. Durante il giorno, se avete cinque minuti in cui non sapete cosa fare, ne leggiucchiate qualche riga. Il libro si trascina per casa settimane intiere e a poco a poco diventa un amico, vi abituate alla sua compagnia, sapete che andando a letto ritroverete il racconto al punto in cui l’avete lasciato; mezza paginetta, e vi si chiudono gli occhi. Così dev’essere un libro: un amico e non un tiranno.