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Lo scrigno delle emozioni : Psittacula krameri di Cristina Bruni

Progetto grafico Franlù

Psittacula krameri

di Cristina Bruni

 

Milano è buia, fredda. Triste quasi quanto un vecchio monumento funebre che esibisce tutti i segni del tempo: una crepa qui, un po’ di pietra scrostata là. Uno di quelli che raffigurano un angelo, magari, o un pellegrino che porta sulle spalle il peso della croce, come si può ammirare di sovente nei vecchi cimiteri. Quelli in apparenza chiusi al pubblico da un cancello arrugginito e un lucchetto che, tuttavia, non sono sufficienti a tenere lontani gli amanti del gotico e del macabro.

Michele ha sempre amato Milano, la sua città, quasi in maniera viscerale. La frenesia, i rumori assordanti, le automobili parcheggiate sui marciapiedi e in altri luoghi impensabili. Persino l’inquinamento a tratti soffocante e lo smog grigio e appiccicoso si sono spesso rivelati compagni tollerabili delle sue giornate. Per anni, ogni cosa in questa città gli è apparsa come sinonimo di vita. Uscire presto di casa la mattina, con la ventiquattrore in una mano e una fetta di pane tostato o croissant ancora caldo nell’altra. Prendere il tram in via Cellini all’ora di punta per recarsi a scuola, solo poche fermate più in là, dove ad attenderlo c’era tutte le volte la sua classe tanto rumorosa quanto briosa e piena di vitalità.

E che dire poi dei clacson suonati a sproposito e con insistenza a qualsiasi ora? Erano il venticinquesimo Capriccio op. 1 di Paganini. Il susseguirsi delle sirene delle ambulanze, che di giorno si mischiavano agli altri suoni della vita cittadina e di notte regnavano invece incontrastate, scandiva il tempo con la stessa briosità dell’Andante in Sol Maggiore di Mozart. Persino i pungenti e illegali graffiti che imbrattavano con insolenza muri e cler sono sempre stati per Michele sinonimo d’amore, un amore più elettrizzante e vibrante persino di un’intera tavolozza di Rembrandt.

Ma ora ogni cosa sembra aver perduto d’improvviso il proprio colore, il proprio profumo. A Michele par quasi che la sua città, e forse l’umanità intera, sia stata improvvisamente risucchiata nelle viscere della Madre Terra, rimanendo invischiata in una triste parodia d’una vita priva di sole, priva di luce.

Priva d’amore.

Come in uno dei tanti videogame fantascientifici post-apocalittici che vanno di moda. Michele si sente proprio così: il protagonista di un bel gioco per Playstation intrappolato nel primo livello oltre il quale non è proprio capace d’avanzare.

Ironico.

Perché una volta l’ha annusato, il profumo della felicità. L’ha ammirato, il colore dell’amore.

È stato a un passo dall’intingervi le mani e usarle per dipingere di nuovo e di meraviglioso la sua intera esistenza. Ma poi è sopraggiunta la morte e ogni cosa, dopo essere stata per un attimo violata e accecata dal bagliore del rosso del sangue, è piombata in una sterile oscurità.

  • §§

 

Il suo nome era Benjamin O’Hara.

Gli amici lo chiamavano semplicemente Ben.

Per lui, soltanto per lui, era Jam, come la marmellata: dolce, colorata. Che ti si appiccica sulle dita, sulle labbra e non vuole separarsi da te.

Ventitré anni, irlandese di Dingle, amante della buona musica e della letteratura: di lui, Michele conosceva poco altro. Ma sapeva che i suoi capelli avevano il profumo di un cestino di more e il colore dell’ebano. Gli occhi mostravano tutte le sfumature del sottobosco e la vivacità di quelli d’un bambino. Mente e cervello erano curiosi e desiderosi di imparare, di conoscere il suono della lingua italiana, così come quello delle sue canzoni e della sua arte. Sapeva anche che dalle mani di quel ragazzo nascevano cocktail e cappuccini assolutamente non di questo mondo. Che possedeva una risata fresca e cristallina come il battito delle ali di un angelo, con un cuore che batteva sincero come quello del più nobile dei cavalieri.

È bastato conoscere questo, a Michele, tranquillo professore di trentaquattro anni, per perdersi via in un amore che odorava di freschezza e spensieratezza. Come il primo, quello che non dimenticherai mai: quello di quando lei aveva ancora le trecce e tu i brufoli al posto della barba.

Oggi, Michele conosce molte più cose di questo ragazzo: il suo libro preferito, i gusti di gelato che non sopporta, la ninna nanna che cantava sua madre per farlo addormentare e, cosa che nessun altro sa, che il suo punto debole è il solletico sotto l’ombelico.

Ma, soprattutto, Michele sa che Benjamin se ne è andato, per sempre, trascinando con sé anche una parte di lui. Quella spensierata, gioviale, quella innamorata della sua Milano e di ogni nuovo giorno.

Quella viva.

  • §§

 

La proprietaria del palazzo in via Cellini aveva affittato a Benjamin il monolocale al secondo piano. Era fine aprile. Michele se lo ricorda ancora come se fosse accaduto solo ieri: un pomeriggio afoso, la scuola chiusa per il ponte del primo maggio. Troppo caldo per starsene sul terrazzo, sporgendosi a guardare l’andirivieni stanco e noioso dei pedoni nella strada. Troppo caldo persino per starsene sdraiato sul letto in mutande e con null’altro addosso, a osservare pigramente il soffitto. Allora Michele si era infilato i pantaloni della tuta di pallacanestro, in cotone leggero, ed era sgusciato fuori dal suo appartamento, diretto verso le cantine e il suo potente ventilatore a colonna stoccato là sotto da qualche parte.

È stato in quel momento che Benjamin incespicò nella sua vita. E lo fece letteralmente.

Il giovane stava entrando nel suo nuovo appartamento reggendo un grosso scatolone di cartone e Michele, scendendo di corsa le scale a due a due e notandolo solo all’ultimo momento, non era stato capace di evitarlo, caracollandogli addosso.

«Mi scu… si» aveva biascicato il ragazzo, in un italiano stentato e poco sicuro, mentre si chinava a raccogliere gli oggetti – qualche libro e cd – che si erano sparpagliati sul ballatoio.

«Non sei tu a doverti scusare, è stata colpa mia. Troppa fretta!» aveva ribattuto Michele, inginocchiandosi per aiutare il ragazzo a mettere via le sue cose. «Sei straniero, non è vero?» Il giovane si era limitato ad annuire, dando mostra della sua timidezza, forse un po’ insolita per un giovane maschio della sua età.

«Di dove? Da dove vieni?» aveva poi chiesto Michele, riponendo nella scatola l’ultimo libro e posando gli occhi sul volto del giovane sconosciuto. «Irlanda» aveva risposto il ragazzo, una mano ancora sullo scatolone e lo sguardo ostinatamente rivolto altrove.

«Dublino?»

«No, penisola di Dingle. Non… Non credo che tu, che lei…» aveva farfugliato, ma Michele lo aveva interrotto, stupendolo.

«Oh, sì che la conosco. Ci hanno girato Cuori ribelli! No, aspetta… Come lo chiamate, voi?» Uno schiocco di dita. «Ah, sì! Far and Away. un bel film!»

Le labbra del ragazzo si erano addolcite, al suono di quelle tre parole articolate nella propria lingua, seppur con una pronuncia alquanto stridente per le sue orecchie. Un richiamo troppo forte e invitante, che lo aveva fatto sentire sicuro al punto di voltarsi e posare finalmente gli occhi sull’uomo che le aveva dette.

E fu esattamente in quel preciso istante che Michele si sentì rapire il cuore. Dalla limpidezza di quelle iridi verdi, che stavano sorridendo con la stessa intensità di una stella solitaria nel cielo terso notturno.

Così come da quelle labbra, piene come quelle di poche tra le donne che Michele aveva conosciuto e baciato nella sua vita, e che sembravano essere sul punto di raccontare non una bella favola, ma cento. Mille.

«Nicole Kidman… Non mi piace molto» aveva rivelato il ragazzo scuotendo il capo, in un italiano che sembrava divenire via via meno stentato. «Tom Cruise va bene, invece!»

Michele aveva riso divertito, rimanendo a fissare quel volto per un tempo indefinito, come se qualcosa gli stesse comunicando che attorno a quella persona ruotava un universo nuovo e sconosciuto, tutto per lui da scartare e scoprire.

Poi aveva allungato la mano, mentre dalle sue labbra usciva un deciso «Io mi chiamo Michele, piacere di fare la tua conoscenza.» Allora il ragazzo aveva allungato la propria, stringendo quella dell’uomo in una stretta calda e salda. «Benjamin. O Ben. Oppure…»

«Oppure Jam, come la marmellata!» aveva ribattuto Michele, le mani ancora strette l’una all’altra. Il giovane s’era abbandonato a una risata. Sentita, pulita.

«Aspetta! Lascia che ti aiuti con le tue cose» aveva quindi deciso il professore. Benjamin si era alzato annuendo, per poi sparire nel suo piccolo appartamento. E Michele lo aveva imitato, il pensiero del ventilatore scaraventato in un angolo della sua mente.

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Michele possiede un pianoforte, un vecchio Neupert “tre quarti di coda” risalente agli anni Sessanta. Era appartenuto a sua nonna e lui lo aveva ereditato assieme all’appartamento. Non ha mai imparato a suonarlo, ma nemmeno ha mai avuto cuore di venderlo o donarlo a qualche scuola. Gli piace tenerlo lì, in un angolo del soggiorno, a riscaldare le mura con la sola eleganza del legno nero lucido e ben curato.

Benjamin lo aveva notato subito, la prima volta che aveva messo piede in casa sua. I suoi occhi si erano illuminati d’immenso, quasi a indicare che, d’improvviso, non si sentiva più così tanto fuori posto in quella città in apparenza così aliena alla realtà in cui era cresciuto. «Un Neupert!» aveva esclamato, muovendo un paio di passi verso lo strumento. Ma poi si era bloccato, voltandosi verso Michele e guardandolo in una muta, ma rispettosa richiesta di permesso.

«Prego!» gli aveva concesso lui sorridente, con un cenno della mano.

Il ragazzo si era avvicinato leggiadro, accarezzando la cassa con la stessa delicatezza che un amante riserverebbe al corpo d’una giovane e sensuale femmina. «Telaio in legno, tasti in avorio…» aveva sussurrato, prima di scostare il seggiolino e sedersi. Aveva posato le mani sulla tastiera e poi aveva chiuso gli occhi, in attesa.

Un attimo dopo, le sue dita presero a scorrere rapide sui tasti bianchi e neri, riscaldando l’aria con una melodia in grado di raggiungere Michele dritto dritto al cuore. L’uomo era rimasto a osservare il giovane in ammaliato e riguardoso silenzio, bevendo avidamente ogni nota sino all’ultima.

Benjamin non aveva sollevato subito le palpebre, quando la musica era giunta al termine: voleva ingabbiare il più possibile dentro sé le sensazioni che aveva appena provato, che sapeva d’aver fatto provare a Michele. Voleva che durassero ancora e ancora sulla pelle di entrambi.

«Enya…» Erano state le parole di Michele a spezzare quell’attesa. Il ragazzo aveva sollevato lo sguardo e increspato le labbra in un sorriso.

«La conosci!» Era sorpreso.

Il professore s’era allora avvicinato, sfiorando piano lo strumento con l’anca. «Splendida e inimitabile» aveva convenuto, iniziando a guardare quel frammento di eredità con occhi diversi.

«A day without rain. Un giorno senza pioggia, dite voi, no?» Gli occhi di Banjamin erano poi scivolati oltre la finestra, verso il cielo limpido che si stagliava sopra Milano. «A casa mia, invece, pioggia, pioggia e ancora pioggia…» Era seguita una breve pausa di silenzio, ma che nessuno di loro giudicò scomoda. «Quando qui piove, mi sento un po’ come se non me ne fossi mai andato…»

Allora Michele si era chinato in avanti, appoggiandosi al coperchio con entrambe le braccia. «Parlami del tuo paese» lo aveva invitato. Il sorriso non accennava ad abbandonare il suo viso.

E così Benjamin aveva iniziato a raccontare delle strette insenature che giocavano a rincorrersi con le ampie baie, dei piccoli e suggestivi promontori a picco sul mare, delle nubi di ogni sfumatura del grigio che quasi ogni giorno decoravano i cieli sopra Dingle, ma anche dei puledri lasciati liberi di galoppare nelle praterie sconfinate con le folte criniere smosse dal vento.

Gli aveva parlato di sua madre, morta quando lui aveva poco più di otto anni ma della quale ancora serbava un tenero e affettuoso ricordo. Aveva menzionato ogni sacrificio sopportato da suo padre per crescerlo, fino a quando un male che non perdona gli aveva sottratto anche lui. Non s’era nemmeno dimenticato della prima volta che le sue dita si erano accostate con soggezione alla tastiera di un organo, nella piccola chiesa del villaggio, o del subbuglio che aveva provato dentro di sé quando le note dell’Ave Maria erano fluite dalle canne.

Michele lo aveva ascoltato sino all’ultima parola, inghiottendo con interesse ogni sillaba che usciva da quelle labbra. S’era ritrovato a chiedersi che cosa mai avesse spinto un ragazzo come Benjamin a salutare la propria terra, che cosa mai cercasse nella vita una persona così sensibile e delicata come quella che aveva di fronte in quel momento. Se fosse il desiderio di trovare una nuova famiglia o semplicemente se stesso.

Il giovane gli disse addio prima di riuscire a darsi una risposta.

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Da quando Jam non c’è più, Michele non è più riuscito a mangiare le lasagne e nemmeno a sopportarne il profumo. Le preparava di sovente per Benjamin; quelle bianche, con la provola al posto di ragù e pomodoro. Erano diventate ben presto il piatto preferito del giovane, da quando si era trasferito in Italia. A Michele era sempre piaciuto cucinare, ma questo è stato prima. Prima che Benjamin… se ne andasse.

Il professore aveva invitato il ragazzo irlandese a salire per cenare da lui, la prima volta, soltanto perché gli aveva fatto tenerezza: surgelati o piatti pronti da scaldare al microonde, era questa la dieta che seguiva. «Perché non sali da me? Spaghetti al pomodoro, una cosa veloce, senza impegno» gli aveva proposto Michele, quando lo aveva incontrato sulle scale del condominio, un lunedì, dopo che il sole aveva iniziato la sua pigra discesa verso la notte. Benjamin aveva sorriso, gli occhi così raggianti da rischiarare l’intero antro. Spaghetti e una bottiglia di rosso; era stata una serata piacevole, volata amabilmente via sulle note di Chet Baker. My funny valentine, Almost blue

Ben presto, le volte a settimana in cui il ragazzo e il professore cenavano assieme diventarono due, poi quattro, infine sette. Ripetizioni ai fornelli, le chiamava Michele, poiché, con il Cucchiaio d’argento a un’estremità del bancone e la Grammatica italiana all’altra, aiutava Benjamin a perfezionarsi nella lingua. Per l’inizio di giugno, il libro di grammatica aveva lasciato il posto a La luna di carta di Camilleri.

Il professore spiegava i significati nascosti nella lingua italiana o le peculiarità dei suoi dialetti, il ragazzo raccontava delle anguste insenature e delle vaste baie della sua isola.

Michele non avrebbe chiesto nulla di meglio dalla vita.

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Benjamin era riuscito a trovare un impiego presso la caffetteria del centro commerciale in Piazza Cinque Giornate. In realtà, era stato Michele a procurarglielo, poiché la figlia del gestore era una dei suoi alunni. Raccomandazioni: fino ad allora, il professore le aveva sempre odiate; con l’arrivo del giovane irlandese, iniziarono ad apparirgli bellissime.

Dopo due sole settimane e senza che avesse frequentato alcun corso per barman, Benjamin aveva imparato a fare cappuccini deliziosi. Così Michele aveva preso l’abitudine di fermarsi a bere un caffè alla caffetteria, prima di rincasare dopo le lezioni. Le prime volte si era fermato giusto il tempo di un caffè, poi per quello di un caffè e una chiacchierata e alla fine, dopo solo dieci giorni, Michele aveva iniziato ad attardarsi fino alla chiusura, per aiutare Benjamin a comunicare con i clienti quando si trovava in difficoltà più del solito.

Tornavano a casa assieme, quelle volte in cui Michele rimaneva, camminando fianco a fianco e parlottando in allegria degli hobby dell’uno o di quelli dell’altro. A Michele piacevano il jazz freddo, il gelato alla vaniglia e i gatti. A Benjamin l’opera, le ostriche e i pappagalli. Il parrocchetto dal collare era il suo preferito. «Ne avevo uno, a casa. Femmina. Di nome Sun. È morta. La settimana prima di partire» gli aveva raccontato una sera, davanti a un piatto di lasagne gustose e fumanti appena uscite dal forno, nell’appartamento di Michele. Gli piaceva il suono del nome scientifico di quella razza quando lo srotolava contro il proprio palato: Psittacula Krameri.

Sun era di una brillante tonalità di verde, con una più tenue sfumatura di rosa sulle ali e sul collo. Rosa e verde, colori che a Michele piacevano molto. Gli avrebbe regalato un nuovo parrocchetto, aveva deciso. Così Benjamin avrebbe avuto qualcosa che gli rammentasse casa e, magari, si sarebbe sentito meno solo.

Il parrocchetto arrivò, in un piovoso sabato mattina di fine maggio. Con i suoi colori brillanti sembrava essere in grado di dipingere d’allegria l’intero cielo sopra Milano. Benjamin parve essere davvero tornato bambino quando lo prese con mani tremanti da quelle più ferme di Michele. Era una femmina: il professore si aspettò che il ragazzo chiamasse anch’ella Sun. Si sentì preda di un’indecifrabile emozione quando gli disse che le avrebbe invece dato il nome Michelle.

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Una sera, Benjamin si assopì sul divano di Michele. Il ragazzo era a Milano da meno di un mese, ma agli occhi del professore sembrava esserci da sempre. Sembrava volerci stare per sempre.

Avevano guardato un episodio di una serie TV poliziesca, la preferita del professore: un uomo aveva ucciso il fratello mascherando l’omicidio da suicido. Michele gli aveva spiegato con la pazienza tipica d’un genitore ogni passaggio, ogni battuta troppo complessa, proprio come faceva con i suoi studenti. Meglio di come faceva con loro. E poi i suoi occhi l’avevano visto cedere alla stanchezza, reclinando il capo contro il bracciolo del divano, un cuscino stretto tra le braccia.

Li aveva lasciati lì, i suoi occhi, perché proprio non volevano saperne di andarsene. Magari, ora che Benjamin giaceva addormentato, sarebbe riuscito a comprenderlo, almeno in parte.

Forse il lento e cadenzato alzarsi e abbassarsi del suo petto, il respiro caldo che alle orecchie di Michele suonava come la più coinvolgente delle sonate e le labbra appena dischiuse gli avrebbero rivelato ogni segreto di quel giovane, gli avrebbero sussurrato chi fosse davvero Benjamin O’Hara.

Il giovane irlandese si addormentò molte altre volte sul divano del professore, nelle sere a venire. Mai una volta Michele lo svegliò. All’inizio, gli augurava sommessamente la buonanotte, lo copriva con una coperta leggera in cotone, se la temperatura lo richiedeva, e poi andava a coricarsi a sua volta nel proprio letto.

Ma poi una bella sera smise di farlo, preferendo lo spartano divano a tutta la comodità del materasso. Le prime notti, Michele s’accucciava ben bene contro il lato opposto. Però in seguito, via via che la confidenza tra i due uomini aumentava, nessuno di loro si curò più se il braccio dell’uno andava a sfiorare la coscia dell’altro, o se i riccioli corvini accennavano a lambire la zazzera castana, perché il tepore dei loro corpi vicini donava a entrambi un senso di completezza e serenità.

A Michele, il suo piccolo appartamento non era mai apparso come una vera casa come in quei pochi mesi in cui Benjamin ne fece parte.

Ogni notte, prima di cedere al sonno, Michele rimaneva a contemplare il viso di Jam, nella speranza di trovare la chiave giusta per decifrare i suoi misteri.

Non ci riuscì mai.

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«Chi sei veramente?» aveva domandato Michele una sera. Erano seduti al bancone nella cucina del professore: davanti a loro, due piatti di straccetti di vitello all’aceto balsamico e due calici di rosso. Poco più in là, Sulla strada aperto al terzo capitolo.

Benjamin aveva arricciato appena le labbra, senza tuttavia staccare gli occhi dalla sua cena. «Siamo filosofi, stasera, sì?» aveva risposto ridacchiando.

Michele aveva sorriso, poi aveva avvicinato il suo bicchiere alla bocca per prenderne un sorso. «Seriamente, Jam. A volte ho come l’impressione che tu non voglia farti conoscere… Di non riuscire a penetrare la tua corazza.»

Allora il ragazzo aveva smesso di evitare il contatto. Il suo volto era divenuto serio, aveva incrociato le mani e poi aveva rivolto gli occhi a Michele, donandogli uno sguardo malinconico.

«Spesso è difficile conoscere se stessi. Conoscere gli altri non è addirittura impossibile?»

Michele aveva dischiuso le labbra, pronto a ribattere, ma poi i suoi pensieri erano rimasti sospesi nell’aria, troppo confusi per poter essere espressi con raziocinio. Percepiva con nitidezza il tumulto e il groviglio di dubbi in cui era intrappolata l’anima che aveva di fronte. Un rovo di tormenti. Avrebbe fatto di tutto per aiutarlo a uscirne.

Ma il professore sapeva altrettanto bene che non sarebbe stato facile donargli il suo aiuto, poiché era stato Benjamin stesso a innalzare quelle mura dietro le quali s’era rifugiato, unico artefice del suo stesso assedio.

«Puoi forse dire di conoscere realmente te stesso, Michele?» aveva continuato il giovane. Allora il professore aveva lasciato scivolare lo sguardo sulle mani congiunte avanti a sé e aveva scosso il capo. Un amaro senso di consapevolezza iniziava a farsi strada in lui, lasciandogli addosso la certezza che no, non sarebbe mai riuscito a oltrepassare quella corazza.

«Vorrei solo che ti aprissi. Che mi lasciassi… entrare dentro giusto un po’» Michele aveva avvicinato pollice e indice fin quasi a sfiorarsi, per sottolineare meglio il concetto. «Perché io intravedo qualcosa di unico, dentro di te, e vorrei poter arrivare a conoscere questo qualcosa.» Una risata amara e di nuovo il professore aveva scosso la testa. «Gesù, sto dicendo solo cazzate!» aveva sussurrato più a se stesso che a Benjamin. In quel momento, Michele s’era sentito sciocco, infantile, melodrammatico…

Ma anche innamorato.

Tuttavia, il suo io di maschio s’era ribellato e aveva fatto del proprio meglio per combattere e soffocare questo embrione di sentimento.

La sua resistenza, però, mostrò ben presto i primi segni di cedimento, quando Benjamin, donandogli il più luminoso e genuino dei sorrisi, aveva allungato una mano, facendo scivolare le dita sul suo polso sinistro. Lì avevano indugiato per un attimo e poi erano scese verso il palmo, accarezzandolo con la delicatezza d’una piuma.

«Tu mi stai conoscendo come non ho mai permesso a nessuno di fare» aveva mormorato, per la prima volta davvero sicuro del proprio italiano.

Sotto il peso di quelle parole, sotto quello sguardo così limpido e intenso puntato dritto dritto nei propri occhi, Michele aveva nettamente avvertito tutte le proprie convinzioni e la sua stessa anima vacillare con prepotenza.

Gli era parso di morire e di rinascere. E di morire ancora.

Si era sentito, per la prima volta nella vita, davvero appartenente a qualcuno. Ma, allo stesso tempo, si era trovato intimorito dalla presa di coscienza del sentimento che iniziava a provare nei confronti di quel giovane, del suo nuovo io che iniziava a graffiare per uscire e crescere alla luce del sole.

Così, aveva ritirato la mano, restaurando il vuoto tra lui e Benjamin. Stava scappando.

«C’è il tiramisù, in frigorifero» aveva poi detto, alzandosi e fingendo un’innaturale normalità. «È quello del supermercato, ma non dovrebbe essere malvagio…»

Michele gli rivolgeva la schiena quando Benjamin aveva risposto un sommesso: «Il tiramisù del supermercato andrà benissimo», un’ombra di malcelata amarezza che era scesa d’improvviso sul suo volto.

  • §§

Era l’ultima settimana di lezione e pioveva a dirotto. Michele era uscito tardi da scuola, dopo due ore extra-curriculari con i ragazzi dell’ultimo anno che dovevano sostenere gli esami finali. Le raffiche di vento erano state troppo forti per il suo ombrellino nero acquistato per pochi euro da un venditore ambulante sotto la metropolitana: si era ripiegato all’indietro solo pochi metri prima dell’ingresso laterale del centro commerciale.

«I tuoi capelli… sono fradici» aveva commentato Benjamin, porgendogli una tazza colma di the fumante.

«Sei fortunato a stare qua dentro, mentre fuori imperversa il diluvio universale!» aveva ridacchiato Michele, passandosi una mano tra i capelli castani e ricacciando al suo posto un ciuffo bagnato, «faccio schifo così.»

«No, sei bellissimo…»

Tre semplici parole, quasi mormorate, che, in mezzo al chiacchiericcio appiccicoso degli avventori e al tintinnare di piattini e tazzine, sarebbero sgusciate via, passando inosservate alle orecchie dei più. Ma a quelle di Michele no, non a esse. L’uomo maturo e il giovane straniero erano rimasti a osservarsi in silenzio per qualche attimo, del tutto indifferenti a quanto avveniva attorno a loro, così presi a cercare di comprendere il reale significato che si celava dietro a ciò che era appena stato detto, dietro a ciò che stavano sussurrando i loro sguardi.

Non era stato aggiunto altro, non un sospiro o una mezza parola. Poi Michele aveva pagato la sua consumazione e si era alzato per andarsene. Nemmeno in quel frangente era stato capace di dire nulla; aveva dischiuso appena le labbra, lasciando che tutto ciò che avrebbe voluto rivelare – gridare – rimanesse lì, sospeso nel tempo e nell’aria. Poi Benjamin aveva adagiato il proprio sguardo in quello del professore, insensibile alle proteste di un paio di vecchiette che reclamavano le sue attenzioni, e Michele avrebbe potuto giurare di aver letto il suo stesso desiderio nelle iridi che aveva di fronte.

L’uomo era poi corso sino a casa, l’ombrello ormai rotto in una mano e la ventiquattrore nell’altra, indifferente alla pioggia primaverile che inzuppava non solo gli abiti ma anche la sua intera anima.

Non aveva arrestato la sua corsa nemmeno una volta al riparo nel suo condominio, prediligendo le scale in salita alla comodità dell’ascensore. Aveva chiuso la porta dell’appartamento con un sonoro tonfo, gettando ombrello e borsa bagnati a terra, incurante del fatto che avrebbero finito per sporcare il pavimento.

Sei bellissimo…

S’era quindi diretto verso lo stereo, lo aveva acceso e alzato il volume al massimo. Le note di Summer of ’69 di Brian Adams avevano iniziato a martellargli nella testa, nella sciocca speranza che mettessero a tacere ciò che il suo corpo – ma soprattutto il suo cuore – stava cercando di dirgli.

Infine Michele era tornato alla porta. L’aveva guardata senza vederla realmente e poi s’era appoggiato a essa con tutto sé stesso, nella speranza che quel contatto materiale lo facesse rinsavire. Aveva chiuso gli occhi, ma la follia sembrava non essere intenzionata ad abbandonarlo.

E allora il campanello suonò.

Era trascorsa mezz’ora da quando aveva messo piede in casa; oppure solo dieci minuti, non avrebbe davvero saputo dirlo con certezza. Quando aprì, l’ultimo barlume di razionalità gli disse addio per sempre, alla vista del suo desiderio più grande che lo stava guardando zuppo di pioggia dalla testa ai piedi, con due occhi scintillanti quanto le stelle nel cielo e una bocca che sembrava essere stata creata per il solo scopo di baciare e farsi baciare.

«C’è qualcuno… nella tua vita?» aveva domandato Benjamin, selezionando a fatica le parole. Michele lo aveva osservato senza capire, dapprima. «Una ragazza? O un ragazzo?»

Il professore aveva scosso la testa in segno di diniego, poi aveva allungato una mano, accarezzando quelle fredde e bagnate del giovane. «Ma adesso sì» aveva aggiunto, trascinando dentro Benjamin e chiudendo fuori tutto il resto del mondo.

Michele s’era così arreso alla volontà del proprio cuore.

Fecero l’amore con urgenza, bramosia, schiacciati contro la parete che divideva il salotto dalla cucina, quasi come se sapessero che ogni cosa fosse destinata a finire da un momento all’altro. «Sono il primo? Il primo uomo, per te?» aveva chiesto Benjamin, con la voce strozzata dai gemiti e il respiro affrettato.

«Dio, sì che lo sei!» Le parole del professore erano uscite dalla bocca in un rantolo, mentre le mani regalavano frenetiche e disperate carezze al corpo florido e asciutto che abbracciava il proprio. «E io? Sono il primo per te, io?» aveva chiesto a sua volta Michele, affondando il viso nel collo del ragazzo e lambendone la pelle delicata tra i denti.

«Tu sarai l’ultimo» aveva risposto Benjamin, voltandosi verso il muro intonacato di giallo, offrendo tutto se stesso all’altro uomo affinché lo possedesse.

Michele non comprese in quel momento che cosa il giovane straniero avesse davvero voluto dire con quelle parole, Tu sarai l’ultimo, e quando ci riuscì era già troppo tardi.

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Una notte di fine agosto, Michele s’era svegliato allo sbattere della finestra dimenticata aperta. Con gli occhi ancora troppo pigri e assonnati per essere spalancati, aveva allungato piano la mano destra, facendola scivolare sul materasso ancora caldo. Le sue labbra si erano tese in un sorriso, mentre il cuore preannunciava avido il momento in cui le dita avrebbero sfiorato il corpo della persona amata.

Ma l’altra metà del letto l’aveva sorpreso a essere sfacciatamente vuota, le lenzuola scostate e in disordine. Allora Michele s’era tirato a sedere, gli occhi sbarrati e vigili. Aveva sbattuto le palpebre un paio di volte, per abituarsi alla penombra, e poi si era guardato intorno. Nello spicchio di luce calda proveniente dalla porta lasciata socchiusa, lo svolazzante tendone della portafinestra in salotto proiettava un’ombra curiosa: Benjamin era sul terrazzo.

Il pavimento freddo sotto i piedi nudi l’aveva fatto rabbrividire non appena era sceso dal letto. Si era infilato i boxer e null’altro. Sbadigliando e scompigliandosi i capelli già arruffati, aveva raggiunto il ragazzo all’aria aperta. Aveva mosso a malapena un paio di passi quando s’era bloccato, la mano che ancora sfiorava la maniglia della portafinestra.

Benjamin se ne stava accucciato sul bordo dell’ampio parapetto, sostenendosi alla colonna che tagliava in due il terrazzo. Nella sua posa, pareva quasi un cigno dal piumaggio pallido ed elegante, pronto a dispiegare le ali da un momento all’altro. Ma il viso era teso, gli occhi assorti in visioni che sembravano appartenere solamente a lui.

«Mi sono svegliato e non c’eri…» aveva iniziato Michele, lasciando infine andare la maniglia per la sua strada e avvicinandosi al ragazzo. «Che cosa ci fai qui?»

Benjamin non aveva risposto: era rimasto così immobile da far persino dubitare a Michele d’essere stato udito. «Jam?» lo aveva allora incalzato, alzando la mano quel tanto che bastava per sfiorare le dita del suo giovane amante, strette attorno ai rami di gelsomino che avvolgevano la colonna. Erano fredde.

«Ti sei mai chiesto come sarebbe? Spiccare il volo da quassù, provare la libertà nelle vene…» Il ragazzo aveva parlato tenendo lo sguardo fisso innanzi a sé, come se lì davanti ci fosse davvero una realtà che gli altri non erano in grado di percepire. Un acuto senso di paura aveva attraversato rapido la spina dorsale del professore.

«Credo che, se lo facessi, mi farei davvero molto male!» aveva scherzato Michele, fingendo un divertimento che in verità non provava. Benjamin s’era allora voltato, cercando con insistenza gli occhi dell’altro. Una luce fiera e indecifrabile li animava. «Esiste forse una vita senza dolore?» aveva ribattuto, il labbro inferiore che tremava quasi impercettibilmente.

«Se esiste, non si trova certo in questo mondo…» aveva convenuto Michele.

Dal ristorante in fondo alla strada, Gennaro, iniziarono a levarsi voci confuse di persone che si auguravano reciprocamente la buonanotte. «Dai, rientriamo ora, Jam. Si sta facendo tardi…» aveva proposto il professore, sfiorandogli il gomito.

«Tu vai. Io ti raggiungo» era stata la risposta del ragazzo, lo sguardo che tornava a posarsi nel vuoto.

Michele era rimasto a fissare il soffitto della camera per mezz’ora buona, le braccia allacciate sotto la nuca. Quando Morfeo lo richiamò a sé, la metà del letto accanto a lui era ancora vuota.

  • §§

Accadde un pomeriggio di settembre, il giorno in cui Milano e il mondo intero persero ogni colore e profumo. Fu Michele a trovarlo, seduto su una sedia nel cucinino del suo monolocale, il capo reclinato all’indietro e ormai sfigurato in una maschera di sangue. Si era sparato un colpo in pieno viso tirando una corda legata al grilletto di un fucile, rinvenuto sul piccolo mobiletto al lato opposto della stanza. Il proiettile gli aveva spappolato la testa, andandosi a conficcare nella mensola alle sue spalle.

Proprio come in un episodio della serie poliziesca preferita di Michele e che solevano guardare assieme.

Benjamin aveva posto fine alla sua vita ed era stato lui a mostrargli come fare.

Il professore aveva fissato incredulo quel corpo freddo ormai senza vita, la mente completamente annichilita e incapace di dare un’interpretazione a quello che gli occhi stavano vedendo. Poi si era accasciato a terra e aveva vomitato l’anima.

A Michele sembrò quasi di morire e forse quel giorno una parte di sé, quella capace d’amare, scomparve assieme a Benjamin.

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Benjamin O’Hara non ha lasciato nulla, né un biglietto o qualsiasi altra cosa che giustificasse il suo gesto. L’unica nota stonata nel suo monolocale quel giorno, oltre al fucile e al sangue che imbrattava ogni cosa donandole un nuovo e macabro significato, era stata la voliera lasciata volutamente aperta, per donare libertà alla piccola Michelle.

Cercare di comprendere le motivazioni dietro quel gesto è il primo pensiero di Michele quando apre gli occhi al mattino. E anche l’ultimo prima di coricarsi la sera, dopo un ennesimo giorno vuoto e privo di senso.

Il non capire, il sapere di non essere stato in grado di aiutarlo… È questo che sta uccidendo pian piano quel poco di lui che ancora è rimasto in vita.

Il cielo sopra Milano, privo di colori, osserva Michele uscire di casa ogni giorno e lo segue in ogni momento sanguinando assieme lui silenziose lacrime di dolore.

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Michele ha tenuto uno dei suoi libri. Sulla strada, di Kerouac, edizione in lingua italiana.

Qualche giorno dopo la sua… scomparsa, come si ostina ancora a chiamarla, giunge a Milano una zia di Benjamin, per prendere le sue cose e portarle a casa, in Irlanda.

La zia Ginny, la sua parente più prossima, è una donna ancora giovane e bella, dai soffici capelli rossi e dal fresco viso ricoperto da una spolverata di lentiggini.

Ginny, esattamente come la zia del soldato Louden Downey, in Codice d’onore… Michele si lascia andare a un sorriso amaro quando le stringe la mano, pensando a come sia ironico e crudele il fatto che Mr. Tom Cruise incroci di nuovo la memoria di Benjamin.

Il professore aiuta la zia Ginny a impacchettare tutti gli oggetti del nipote: ci stanno tutti in un piccolo baule e due scatoloni. Non possedeva granché, Benjamin, quand’era in vita. E poi, d’improvviso, tra le mani di Michele capita quel libro. Ne avevano letto diversi capitoli, assieme, durante le afose sere d’agosto, seduti sul dondolo nel terrazzo di Michele, quando tre quarti della città erano deserti a causa delle vacanze estive.

Accarezza con dolcezza la copertina un po’ consunta, poi lo porta alle narici e respira il profumo della carta e dell’inchiostro, mischiato a quello di Benjamin. Se chiude gli occhi, gli sembra quasi che sia ancora lì, con lui.

Può quasi vederlo: Jam è sdraiato sul dondolo a pancia in su, con il libro tra le mani. Il capo sta riposando serenamente nel grembo dell’uomo più adulto. Ogni tanto legge a voce alta qualche brano qua e là e il professore lo corregge quando è il caso.

La mente, e soprattutto il cuore, di Michele non ricordano un’estate migliore. Dio, quanto gli manca…

Poco dopo, nel suo appartamento all’ultimo piano e davanti a due tazzine di caffè – nero e intenso – Michele domanda alla zia Ginny se può tenere il libro, in un ultimo, amorevole ricordo di quel ragazzo così tanto speciale quanto enigmatico. La donna sorride, annuendo, e a Michele pare di ritrovare un po’ di Benjamin, in quel sorriso.

«Lo amavi, non è vero?» gli chiede Ginny con dolcezza, incrociando le dita sotto il mento e inclinando il capo da un lato. È come se i suoi occhi di donna avessero intuito ogni cosa e non desiderano giudicare.

«Lo amerò in questa vita e nell’altra…» è la risposta di Michele, lo sguardo perso nella superficie nera e increspata dentro la tazzina.

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«Un soldo per questa povera vecchia!»

“Un soldo… Chi usa più questa espressione?” pensa Michele, affrettandosi verso casa con le mani sprofondate nelle tasche e la mente distratta. È solo quando svolta l’angolo tra via Cellini e corso XXII Marzo che nota la figura magra e ingobbita accucciata sul marciapiede.

Si ferma a osservarla giusto il tempo per vedere una giovane mamma e una bimbetta dai capelli biondi avvicinarsi alla mendicante. La bimba getta due monetine nella tazza di latta, prima di voltarsi con sguardo compiaciuto verso la madre.

Scuote la testa, Michele, mentre le due si allontanano, mano nella mano. Solo pochi mesi prima, non avrebbe esitato mezzo secondo a mettere mano al portafoglio, ma ora il suo cuore è diventato troppo arido per pensare a se stesso, figuriamoci per interessarsi a una vecchia che chiede l’elemosina.

«Lui è in pace e ti sta aspettando, nel luogo in cui si è recato…»

Michele trasalisce e si guarda in giro. Da dove arriva questa voce? È l’anziana donna ad aver parlato. «Prego?» domanda, tornando sui propri passi.

La mendicante evita il contatto con gli occhi, continuando a tenere i propri fissi sulla strada, ma addolcisce le labbra e offre a Michele un buffo sorriso sdentato. «Ti ha preceduto. È lassù, adesso, e ti sta aspettando.»

Il respiro gli muore in gola, mentre un’immagine sbiadita di un Benjamin che lo guarda e sorride prende forma davanti ai propri occhi. «Io… io non so se posso raggiungerlo» si sorprende Michele a mormorare. Non sa bene che cosa sia la sua, se solo un’affermazione o piuttosto una richiesta d’aiuto. Sta dando retta a quella vecchia, nel suo delirio senza senso, e c’è una parte di lui che non può credere che lo stia facendo davvero.

«Certo che puoi. E lo sai anche tu. La vera domanda è se hai il coraggio di farlo» risponde la mendicante; poi, cambiando repentinamente intonazione nella voce, torna a battere la tazza di latta sul marciapiede e a reclamare ai passanti: «Un soldo per questa povera vecchia!»

Allora Michele si volta e si incammina a passo spedito verso casa, con il cuore che scalcia e la mente confusa, ancora rapita dalle parole della vecchia.

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C’è un uccellino che gratta con il piccolo becco contro il vetro della finestra del bagno. Michele scosta la tenda e lascia che il suo sguardo si posi su quella piccola e colorata massa di piume che sta zampettando sul davanzale. È un pappagallino, un parrocchetto dal collare. La brillante tonalità di verde e le sfumature rosa sulla coda sinuosa non possono tradire. È Michelle, è tornata dall’uomo che l’ha comprata e donata all’amore della sua vita.

Dal suo becco escono strani suoni. È come se Michelle stesse piangendo, cantando il triste epilogo d’una storia ancor più triste. Michele abbassa la tavoletta e si siede sul water. Poi posa la mano sulla maniglia e l’abbassa piano. «Vieni qui, piccolina…»

Ora Michelle zampetta felice sulla coscia del professore. Non vuole volare via, non è impaurita dall’uomo. Il suo canto diventa più tranquillo, più sereno, e i suoi piccoli occhietti curiosi sono puntati verso quelli tristi di Michele, come se cercasse disperatamente di comunicare qualcosa. Qualcosa di importante.

«Tu vuoi che vada da lui, che lo raggiunga. Non è vero?» bisbiglia Michele, le labbra atteggiate a un sorriso spento e inesistente. Poi l’uomo chiude gli occhi, lasciandosi immergere in pensieri che lo assillano con prepotenza alla base della nuca. Davanti alle palpebre, scorrono lente le immagini degli ultimi mesi, una pellicola in bianco e nero che, priva di audio, racconta per un’ultima volta la felicità che non può tornare.

La piccola Michelle gli pungola il dorso della mano destra, in una sorta di strana ma affettuosa carezza.

Quando il professore riapre gli occhi, ha infine deciso.

  • §§

È un pomeriggio di novembre, giovedì, quando la portinaia, la signora Dora – una vedova di sessant’anni – lo trova. Deve essere accaduto diversi giorni prima, a giudicare dallo stato di decomposizione del cadavere. Assieme a lei, ci sono un poliziotto e Marco, un collega di scuola.

«Dio, no…» sono le uniche parole che echeggiano nella stanza. Marco riesce a stento a domare un conato di vomito e la portinaia si fa il segno della croce. Due volte.

Michele è sdraiato sul letto; sulle prime, sembra che stia solo dormendo. Indossa jeans e un pullover color panna. Il viso è sereno e pare addirittura sorridere, adesso che ha conosciuto la pace della morte. La piccola Michelle giace sul guanciale affianco, anch’ella priva di vita. Sul comodino, un flaconcino di farmaci – vuoto – e la copia di Sulla strada che era appartenuta a Benjamin, in una sorta di biglietto d’addio.

Un timido raggio di sole novembrino fa capolino dalla finestra rivolta a occidente e va a morire sui capelli di Michele.

È l’ultimo saluto di Milano.

EPILOGO.

È una luce calda e soffice quella che lo avvolge. È priva di consistenza, eppure sembra che racchiuda ogni cosa. L’inizio, la fine, la vita, l’amore…

Michele è certo di non essere mai stato qui, eppure gli sembra che fosse da sempre destinato a raggiungere questo luogo. Si guarda intorno con occhi pigri e gli sembra di notare niente e tutto assieme. Le palpebre sono pesanti, come se fosse sul punto di crollare addormentato, eppure… eppure si sente come se si fosse appena svegliato alla vita.

«Sei qui, sei arrivato…»

È una voce dolce e profonda quella che ha parlato. La sua voce. Dio, gli è mancata così tanto!

Jam è diverso da come se lo ricordava. Ha l’aspetto di un angelo, ora, con il suo viso luminoso e la pelle così chiara da ricordare l’avorio. E forse lo è davvero, un angelo. L’angelo più bello che è venuto ad accoglierlo all’ingresso di questa nuova esistenza.

«Jam,» bisbiglia Michele in un sussurro. Prova un brivido al suono del suo nome, di nuovo srotolato sulla punta della lingua (o quello che è, che gli ha permesso di pronunciare quelle tre lettere che ama tanto).

Il suo amato si avvicina a lui. Percepisce il respiro dell’altro che si fonde con il proprio. Sono un tutt’uno, di nuovo, e – Cielo! – è qualcosa di estasiante, quasi orgasmico. Michele sente il calore avvolgerlo sempre di più a ogni passo, fino a quando diventa impossibile capire dove finisca se stesso e dove inizi Jam. Ma non importa capirlo, perché è giusto così, che siano una cosa sola.

E poi lo bacia. Un bacio casto, una carezza di labbra. È il ritrovarsi di due anime, che si erano smarrite e che ora sono tornate a essere la stessa entità. Andrà tutto bene, adesso che sono di nuovo assieme.

«Ti amo,» sussurra Michele.

«Ti amo,» risponde Jam.

Il professore e il suo giovane amante sono di nuovo uniti. Per sempre.

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StaffRFS

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