progetto grafico
UN CAVALIERE, A NATALE…
Racconto di Roberta Ciuffi
Campagna romana, 1882
Antonietta contò le ore battute dall’orologio sulla mensola del caminetto. Erano colpi così delicati da sembrare tintinnii di campanelle d’argento e quasi perse il conto nel ricordarsi di certi sonaglini da bambini… batté le palpebre e si riprese. Se non ne aveva perso uno, erano le otto del mattino. Adesso poteva alzarsi.
Da qualche anno le sue notti erano diventate sempre più corte, ma non voleva più aggirarsi per le stanze prima dell’alba. I suoi figli l’avrebbero preso come un segno di persistente stravaganza, se non di debolezza mentale, che sarebbe andato ad aggiungersi ad altri ormai ben noti. Come la sua caparbietà nel tenersi stretto quel che le apparteneva.
Scivolò con attenzione fuori dal letto. Quella faccenda di aggirarsi per la casa buia le era diventata quasi fatale, qualche mese prima, quando di notte aveva imboccato una scala troppo lucida. Adesso era diventata più cauta e, per uscire, aveva adottato l’uso di un bastone di legno di malacca con il manico di madreperla e lamelle d’oro. Era costato una fortuna ma in breve era diventato di moda tra le signore di sua conoscenza e ormai sembrava più un’ostentazione che una necessità.
Solo lei sapeva quanto davvero le fosse utile, in certe occasioni in cui il suo corpo sembrava volesse abbandonarsi per la stanchezza e cedere le armi.
Il che lei, Antonietta Elvira, marchesa Bonfiglio, non avrebbe fatto.
Andò al catino e si lavò rapidamente, per poi vestirsi con maggior lentezza. Non era mai stata brava ad affrettare la scelta di un vestito e la sua cara Michelina non c’era più ad aiutarla. Dopo tanti anni trascorsi assieme, abbandonarla per uno sciocco raffreddore! Antonietta scosse la testa e mandò un bacio verso il soffitto… e idealmente verso il cielo.
Le occorse parecchio tempo per indossare tutti gli indumenti che il clima freddo del periodo e della campagna richiedeva. Non suonò per una cameriera. Negli ultimi mesi suo figlio Bernardo aveva liquidato quasi tutta la vecchia servitù per sostituirla con una masnada di giovani domestici veloci e ridanciani, efficienti e sottilmente irriverenti. Così stancanti. Lei preferiva averci a che fare il meno possibile.
Tutta colpa di quella dannata caduta. Era rimasta in coma per tre giorni e al suo risveglio ogni cosa era cambiata. Sembrava che quel piccolo incidente l’avesse privata della sua autorità e anche della ragione, almeno di fronte al mondo. Non era impazzita, vivaddio! Aveva solo avuto un assaggio del proprio futuro, anche se, sfortunatamente, non ne ricordava niente. Peccato. Le sarebbe piaciuto sapere se in quel suo viaggio misterioso avesse incontrato delle persone care.
Si sistemò i capelli con abilità in uno chignon morbido, in cui inserì dei pettini ornati di giaietti. Si esaminò nello specchio. Non aveva molto da lamentarsi della sua età. Per essere una signora agée che aveva messo al mondo cinque figli, conservava una figura diritta, snella ed elegante. Il bel volto, di cui un tempo era stata scioccamente orgogliosa, era appena segnato qua e là da rughe lievi, la bocca era ancora ferma, anche se aveva perso il rosso della gioventù, e per qualche strano miracolo aveva ancora tutti i suoi denti… una cosa che non finiva di stupire e irritare parecchie delle sue conoscenze. Gli occhi celesti, che un tempo risplendevano come cristalli, erano un po’ appannati e i capelli, naturalmente, del tutto candidi. Erano imbiancati in una notte, quando lei aveva appena trent’anni, dopo che il suo figlio primogenito, Enrico, era stato travolto da una carrozza ed era spirato tra le braccia di un lacchè. Era sfuggito al controllo della bambinaia e nessuno era riuscito a raggiungerlo in tempo. In seguito, avevano appreso che il motivo della fuga era un cucciolo di bastardino sull’altro lato della strada. Perciò Antonietta non considerava i propri capelli bianchi come un segno di vecchiaia, ma solo come l’espressione di uno dei dolori che il tempo aveva rimestato nel calderone della sua vita.
Se Enrico non avesse amato tanto gli animali, pensò di malumore, adesso sarebbe lui il marchese Bonfiglio e di sicuro non mi avrebbe trascinata in questa ghiacciaia con un patetico inganno.
Si pizzicò le guance per portarvi un po’ di colore. Se non fosse stata molto attenta, quello sarebbe stato il suo ultimo Natale alla Villa.
Completò la toletta indossando orecchini, collana, anelli e bracciali, tutto di giaietto. I suoi figli pensavano che lo facesse come segno di lutto per il loro padre e lei glielo lasciava credere. In realtà, li indossava perché i gioielli neri esaltavano il candore dei capelli e l’azzurro degli occhi. Essere agèe non significava aver abdicato alla civetteria.
Scese le scale con attenzione, badando ogni volta a dove metteva il piede. Una caduta era più che sufficiente. Il suo prezioso bastone batteva il tempo sui gradini.
La sua famiglia ‒ figli, nuore, nipoti ‒ era riunita in salotto, attorno al caminetto acceso, una quindicina di persone satolle e infreddolite impegnate ad annoiarsi. Dovevano aver già fatto colazione e adesso stavano decidendo che fare della giornata. O architettando chissà cosa. Era una madre tanto cattiva se non si fidava di loro? Ma aveva smesso decenni prima di fidarsi degli esseri umani, da qualunque ventre fossero usciti.
«Mamma, siete sveglia» disse Edmondo, il figlio minore, scattando in piedi.
Il suo tono la fece sorridere. «Non sono morta nel sonno, se la cosa ti stava preoccupando» replicò.
«No, è che…»
«Sai che non sono una dormigliona» tagliò corto Antonietta, dirigendosi verso una rigida poltrona accanto alla caraffa del caffè. Sperava che non fosse quella brodaglia allungata che la sua nuora francese prediligeva, ma dalla grandezza della caffettiera temeva che non ci fossero speranze.
«Non volete fare colazione?» chiese Bernardo.
«Sono decenni che non faccio colazione. Un caffè basterà.»
Bernardo tacque, mentre la cameriera le riempiva la tazza. «Avete in mente di fare qualcosa nella giornata?»
«Voglio uscire a vedere i giardini. È passato molto tempo dall’ultima volta che sono venuta alla Villa e temo che siano in cattivo stato.»
Il figlio si dimenò, a disagio. «Fa molto freddo, fuori. Vi sembra saggio?»
Antonietta si limitò a sollevare un sopracciglio, guardandolo da sopra il bordo della tazza di caffè. Lui sospirò e cedette le armi. Lei nascose un sorriso. Quel suo figlio non era proprio bravo a tenere testa alle donne. Forse per questo aveva sposato quel topolino francese che sembrava capace di dire solo di sì.
«Non capisco perché voi lo stiate facendo, nonno. Non è compito vostro.»
L’uomo anziano si raddrizzò per fissare il nipote negli occhi. Anche senza la roncola che reggeva in mano, sarebbe stata una vista inquietante per chiunque. Alto e robusto, le spalle appena incurvate dall’età, l’appellativo che meglio gli si addiceva era roccioso.
«Certo che non capisci» disse. «Sei un cittadino. Che ne sai dell’amore per la terra?»
Il ragazzo sporse le labbra in una smorfia di disprezzo. «La terra? Almeno fosse vostra.»
L’anziano lo fissò per un istante, prima di scuotere la testa. I capelli erano ancora quasi del tutto scuri e fitti come quando era ragazzo. Gli occhi grigi avevano il balenio dell’acciaio. Era una figura imponente, che faceva immaginare storie di una vita movimentata e densa di avvenimenti.
«Perché non torni in paese? Qui non c’è niente d’interessante per te» disse, con una nota di compatimento nella voce.
Il ragazzo dondolò sui piedi, evidentemente tentato. «E voi come farete a tornare?»
Il nonno rise. «Qualche miglio di camminata non mi ucciderà. Credi che la fortuna che erediterai alla mia morte me la sia procurata standomene seduto in poltrona? Va’, va. Scommetto che hai già messo gli occhi su qualche bella ragazza, al paese. Ma fa’ attenzione: la gente qui non è come in città. E i padri hanno l’abitudine di tenere il coltello in tasca.»
Il nipote si allontanò con un passo strascicato che doveva simulare il suo scarso desiderio di andarsene. L’uomo rise e tornò a chinarsi sul suo lavoro.
Non è nemmeno la vostra terra. Quanta verità c’era in quella frase, e tuttavia quanto era falsa. Non era sua perché non la possedeva materialmente, ma era il frutto del lavoro di suo padre, di suo nonno e dei suoi antenati in uno schieramento che si perdeva nei secoli. C’era il sangue della sua famiglia, in quella terra. Ed era una vergogna che fosse stata lasciata a quell’abbandono.
«Gente di città» borbottò, tagliando un ciuffo d’erba macerata dal freddo. Aveva sentito che il marito della contessina era morto da circa cinque anni. Era stata una vera fortuna che fosse successo prima che finisse di distruggere quel posto. Tutto il terreno di qualche valore attorno alla Villa era stato venduto per pagare i debiti del signore. La tenuta era svanita, con le masserie, l’azienda agricola, il procoio. Tutto perduto, finito nelle boccette profumate di qualche donnaccia di lusso e sui tavoli da gioco del Regno d’Italia.
Erano rimasti i giardini, perché il gran signore non aveva fatto a tempo a venderli e la contessina non era tanto stupida da dar via quello che rendeva speciale quel posto. Peccato che non ne avesse avuta più cura. Forse non erano rimasti abbastanza soldi nelle casse.
Ludovico si raddrizzò e annusò l’aria. Si sentiva odore di Natale, pensò, sorridendo. Chiuse gli occhi e per qualche istante si concesse di tornare indietro nel tempo.
I cavalli maremmani procedevano lentamente in una fila ordinata. Il freddo sole invernale faceva risplendere i mantelli scuri. Cappellaccio in testa e lungo bastone retto sul fianco, avvolti nei larghi mantelli, i cavalieri dondolavano sulle selle e sembravano quasi addormentati al ritmo placido del passo delle loro monte. Solo il ragazzino si dimenava, seduto in sella davanti al padre, il capo dei butteri, incapace di contenere l’impazienza. «Tata, ci sarà anche la contessina?» esclamò.
«Che te ne importa?» replicò burbero il padre.
«Io sarei contento se ci fosse. A me piace la contessina.»
Un violento scappellotto gli fece rovesciare la testa di lato.
«Tieni a freno la lingua, brigante, e porta rispetto!»
Vico si strofinò la testa, ammutolito. A lui sembrava di portarne tanto di rispetto. In effetti, non c’era nessuno che rispettasse quanto la contessina. Fosse stato per lui, l’avrebbe messa accanto all’altare, al posto della Madonna, ed era sicuro che ci avrebbe fatto miglior figura. Nessuno al mondo poteva avere capelli così biondi e occhi così celesti. Un nasino così sottile e una boccuccia a forma di cuore. Se pensava ai magnifici particolari del suo volto si sentiva riempire d’ammirazione, ma era quando la pensava tutta intera che il suo cuore cominciava a battere in modo strano.
I butteri smontarono a terra e legarono i cavalli agli anelli fissati lateralmente al portale che immetteva alla villa ‒ che ogni abitante di quella zona della campagna romana chiamava castello. Appoggiarono i lunghi bastoni ‒ le mazzette ‒ contro il muro e si tolsero i cappellacci, infilandoli in una tasca interna del mantello.
I domestici aprirono le due grandi ante di legno e il numeroso gruppo entrò nel cortile, dove di solito era permesso l’accesso solo ai signori e ai loro domestici, che erano tanto arroganti da sembrare dei signori anche loro. Vico si guardò attorno con gli occhi spalancati. Era la prima volta che superava quel portale e aveva ricevuto l’incarico da parte di sua madre di memorizzare ogni cosa, per poi raccontarglielo per bene.
Quando fu il momento di varcare la soglia che conduceva all’interno della villa vera e propria, i butteri rallentarono il passo, fermandosi a pulirsi le scarpe o strofinando le mani contro i pantaloni. Il conte Fabrizi stringeva loro la mano, in quel giorno di Vigilia, e nessuno voleva essere quello che avrebbe teso un palmo sporco.
Vico entrò con la testa quasi rovesciata per ammirare il soffitto decorato. Era come… come stare in paradiso. Meglio che in chiesa. Non aveva mai immaginato che potesse esistere un posto di tale bellezza. Le pareti, che nella sua casa erano imbiancate per essere lavate più comodamente con la lisciva, erano foderate di stoffe lucenti.
I domestici guidarono i butteri lungo il corridoio impedendo loro di disperdersi o anche attardarsi, così come i butteri usavano guidare i buoi. Gli stivali scricchiolavano sul pavimento di marmo lucido, tra le pareti riecheggiavano colpi di tosse e sussurri. Li condussero a una grande sala che, Vico comprese, doveva essere il salone da ballo. Alla vista dell’alto soffitto dorato, dell’enorme lampadario carico di candele, il ragazzino spalancò la bocca. Perfino il pavimento riluceva tanto da potercisi specchiare. Che mondo era, quello?
«Tata» mormorò, spingendo la testa contro il fianco del padre.
L’uomo gli arruffò i capelli e poi li risistemò, rastrellandoli indietro. «Tranquillo, Vico, non avere paura. Alla fine è solo una casa» disse con una sbruffoneria che nascondeva una soggezione anche superiore a quella del figlio.
«No» replicò il ragazzo, con lo sguardo fisso al soffitto. «Un giorno io avrò una casa come questa.»
Il padre sollevò la mano per assestargli un altro scappellotto ma la vista del conte Fabrizi e della sua famiglia, allineati per riceverli, lo fermò. «Quando usciamo» minacciò tra i denti.
Vico non lo udì. I suoi occhi erano concentrati sulla figuretta alla destra del conte, la ragazzina bionda con stampato sulla faccia un gran sorriso. Chissà se era davvero contenta di vederli, pensò. Chissà se gli avrebbe parlato. Suo padre gli aveva ordinato di non rivolgere la parola a nessuno, a meno che qualcuno non gli avesse fatto delle domande.
«Miei cari amici» disse il conte a voce alta.
Era un bell’uomo di mezza età, che si era sposato tardi con una donna straniera e aveva avuto solo una figlia femmina, raccontava sua madre. Intendendo che lei, almeno, la sua parte di maschi l’aveva avuta. Anche troppi, pensava Vico, cui quattro fratelli maggiori pesavano parecchio.
«Benvenuti nella mia casa per questo nostro incontro annuale.»
Gli uomini replicarono con un saluto borbottato, le teste basse, nonostante la tentazione di guardarsi attorno.
«Siamo qui per festeggiare la nascita di Nostro Signore. E spero di vedervi tutti alla messa, stanotte.»
Altro borbottio di risposta. Vico smise di ascoltare. Esaminò rapidamente i salottini, i quadri, i candelabri e le statue nelle nicchie, e poi tornò a guardare la contessina. Sussultò, nel trovarsi i suoi occhi celesti addosso. Perse il senso del tempo, finché suo padre gli diede la spinta che lo costrinse ad avanzare di un passo.
«Vico, dice a te.»
Lo guardò interrogativo. «Fatti avanti» sibilò il padre.
Vico obbedì. Capì di essere stato scelto per primo perché era il più giovane tra i lavoranti presenti. Il suo cuore correva più rapido dei suoi piedi, tempestando come se volesse uscirgli dal petto.
Quando fu di fronte al conte, abbassò la testa come gli era stato insegnato. «I miei omaggi» borbottò, arrossendo.
«Un autentico buttero, eh?» rise il conte, abbassandosi per guardarlo meglio. «Osvaldo, quanti ne hai adesso?»
«Sette in tutto, vossignoria, e c’è tempo per farne altri» disse il padre con orgoglio.
Il conte annuì e diede un’arruffata alla testa bruna di Vico. «Mia figlia ha qualcosa per te» disse.
Vico fece un passo di lato e si trovò davanti alla contessina. Era alta quanto lui e i loro occhi erano alla stessa altezza. No, al mondo non esisteva un celeste simile. Neanche il cielo era degno di portare quell’appellativo. Continuando a sorridere, lei gli porse un sacchetto. Lui sapeva che all’interno c’erano una moneta e un santino. Le loro dita si sfiorarono un istante, prima che lui prendesse il sacchetto. Gli parve di non aver mai sfiorato niente di così morbido. Il sorriso della ragazzina era un po’ fisso, adesso, e i suoi occhi ansiosi.
«Vico… Vico…» Il sibilo gli fece girare la testa verso il gruppo dei butteri. Suo padre gli stava facendo segno di ritirarsi.
Obbedì rapidamente, inciampando e provocando risate nella sala. Arrossì e tornò a confondersi nel mucchio della sua gente. La contessina continuò a distribuire sacchetti e sorrisi. E il cuore di Vico, che prima batteva all’impazzata, rallentò e per un istante gli parve che si fermasse. Aveva capito qualcosa.
La cerimonia finì e gli uomini furono di nuovo scortati verso l’uscita. Nel cortile, dei domestici li stavano aspettando per distribuire dei pacchi di viveri, che furono accolti con più entusiasmo dei delicati sacchetti.
Osvaldo assicurò il suo pacco alla sella del massiccio morello, poi vi montò sopra con agilità. Tese la mano verso il figlio che, con un salto, si sistemò davanti a lui.
«Allora, ti è piaciuto?» chiese, facendo girare il cavallo per metterlo al passo assieme agli altri. «È stato come te lo aspettavi?»
«Loro sono molto ricchi, vero?» chiese il ragazzo, aggirando la domanda.
«Straricchi.»
Vico girò la testa per guardare dietro di sé. La villa fortificata gli parve davvero un castello, che custodiva all’interno una principessa. La contessina era proprio come una Madonna, distante e inaccessibile quanto la madre di Nostro Signore. Questo aveva compreso nella lussuosa sala affollata. Lui non avrebbe mai neppure potuto sognarsi di sfiorare una come lei. Tornò a girare la testa avanti.
Un giorno, però, avrebbe avuto tutto il resto, giurò a se stesso.
«Bernardo, per favore, non c’è bisogno che tu mi accompagni a ogni passo. Ti giuro che non cadrò stecchita tra gli aranci.»
La voce femminile strappò Ludovico ai suoi ricordi. Tese le orecchie per sentire la replica, ma ci fu solo un basso borbottio di malcontento. Le alte siepi di mortella che circondavano il giardino, fungendo anche da frangivento, gli impedivano di vedere chi si stesse avvicinando.
Si girò e tornò a chinarsi, a tagliare sterpaglie con la roncola.
«Mi siederò tranquilla su una panchina e penserò agli affari miei» proseguì l’irritata voce femminile.
«L’orangerie non è in buone condizioni» disse una voce maschile. «Potreste inciampare e farvi male.»
«Oh santo cielo. Ti dico che me ne starò ferma e tranquilla a ripensare ai tempi passati. Non ho intenzione di fare una corsa…»
La voce svanì senza terminare la frase e Ludovico capì che la coppia era arrivata all’imboccatura del giardino e lo aveva visto.
«E poi, vedi» riprese la donna, «c’è un giardiniere. Si occuperà lui di aiutarmi, se dovessi averne bisogno.»
Ludovico si girò, deciso a chiarire la sua posizione. L’uomo e la donna avanzavano lentamente, lei agitando nella mano destra un bastone che non doveva esserle di alcun aiuto, in quel modo, e lui sorreggendola quasi di prepotenza. L’impressione era che l’uomo più giovane la stesse quasi trascinando, mentre la signora anziana cercava di sfuggire alla sua presa. Ludovico fece per parlare quando un lampo di collera, negli occhi della donna, gli mozzò il fiato. Quel colore… il celeste di un cielo estivo… Oh, adesso forse più simile a un cielo autunnale.
D’impulso, abbassò la testa e si piegò a un inchino servile, di quelli che aveva cancellato dalla sua esistenza decenni prima.
«Non preoccupatevi, buon uomo, proseguite pure il vostro lavoro» replicò lei, sussiegosa.
Ludovico fece un cenno e attese di essersi girato per permettersi un sorriso. La contessina. Dopo tutti quegli anni. Per un istante provò la stessa sensazione di ammirazione quasi devota di quel lontano Natale. Si rimise a strappare erbacce a capo chino, le orecchie attente a seguire i suoi passi verso una panchina e lanciando qualche occhiata di nascosto dietro le proprie spalle.
«Mi promettete che non camminerete da sola, mamma?» chiese l’uomo, dopo aver fatto accomodare la donna su una panchina di pietra dallo schienale elaborato. «Quanto pensate di trattenervi? Manderò un domestico a riaccompagnarvi a casa.»
«Penso di ritirarmi a mezzogiorno» rispose la donna, tagliando corto alle proteste del figlio. «Voglio godermi questo sole invernale. Ho passato troppo tempo chiusa in casa.»
«Sapete che aspettiamo visite, prima di pranzo» aggiunse il figlio, in tono d’avvertimento. Lei non rispose, ma poco dopo parvero giungere a un accordo perché l’uomo lasciò il giardino e si allontanò in direzione della villa.
«Seccatore insopportabile» sibilò la contessina.
«Sembra un figlio affezionato» si lasciò sfuggire Ludovico.
Ci fu qualche istante di silenzio, come se la donna non potesse credere di essere stata interpellata da un giardiniere. «Già» replicò lei, alla fine. «Anche le sanguisughe stanno attaccate alla pelle, ma non lo chiamerei affetto.»
A quel commento Ludovico sollevò le sopracciglia, ma non disse niente. Le famiglie, nobili o no, avevano i loro problemi. Lui, con i suoi tre figli, lo sapeva bene. Liti per le proprietà, per le future eredità, per le posizioni più importanti nelle società… Grazie a Dio, aveva deciso di dare un taglio a tutta quella porcheria, pensò accompagnandosi con un taglio netto a un arbusto particolarmente duro.
«Buonuomo, attento a non rovinare l’albero» disse la donna con voce aspra.
«Non si preoccupi, contessina. So quello che faccio.»
Contessina. Quanto tempo era passato da quando si era sentita chiamare in quel modo. Naturalmente per la gente della tenuta lei era sempre la contessina Fabrizi, come se gli anni in cui aveva vissuto come marchesa Bonfiglio non avessero alcuna importanza. La sua famiglia aveva posseduto la villa e quelle terre per secoli, fin dai tempi in cui i saraceni facevano le loro incursioni nel Lazio. Il nucleo originale della villa era una torre d’avvistamento, poi fortificata ed estesasi fino a diventare una sorta di rudimentale castello.
Tanti secoli, per finire nelle mani di uno scialacquatore puttaniere e giocatore d’azzardo, pensò con disprezzo, battendo irritata la punta del bastone al suolo. La villa e i giardini erano gli ultimi pezzi rimasti del grande, antico latifondo. Strinse leggermente le palpebre contro il sole, e per impedire a una stupida lacrima di salire in superficie. Loro potevano avere tutti i progetti del mondo, a lei non importava. Non avrebbe venduto quello che restava della sua eredità.
L’aranceto era in pessime condizioni, Bernardo aveva ragione. Il giardiniere si stava dando fare, ma sarebbe occorsa una squadra numerosa per ridargli l’aspetto che aveva un tempo.
Antonietta soffermò lo sguardo sulla schiena dell’uomo chino a strappare erbacce. Più di quarant’anni e meno di sessanta, suppose. Circa come lei. I suoi capelli però conservavano ancora buona parte del nero della gioventù. Una figura imponente, considerò. Spalle ampie, braccia muscolose messe in evidenza dalle maniche della camicia bianca arrotolata. Gli indumenti sembravano di una qualità migliore di quella che ci si sarebbe aspettata da un servitore, anche se non potevano dirsi eleganti.
Lui le provocava una strana sensazione, come se la riportasse indietro nel tempo, a quando da giovanetta sognava di cavalieri e guerrieri valorosi. Nella mente le passò un’immagine che risaliva a molti anni prima: una fila di butteri vestiti di pelle e con i cappellacci in testa, che avanzava sui grossi cavalli maremmani, nelle mani i lunghi bastoni con cui dirigevano il bestiame. A lei ragazzina erano parsi un’armata d’intrepidi soldati venuti a difendere la Villa.
Frugò all’interno del cappotto ed estrasse il portasigarette d’argento, che era riuscita a infilare nella tasca interna sotto gli occhi di quell’impicciona di cameriera che le avevano assegnato. Fece scattare la chiusura e tirò fuori una sigaretta. Dove aveva messo i fiammiferi svedesi?
La contessina taceva da un po’. Ludovico azzardò un’occhiata alle sue spalle. Con una sigaretta tra le labbra, stava tentando di accendere un fiammifero, lottando con un fastidioso refolo di vento che insisteva a spegnerlo.
«Permetta che la aiuti» disse, lasciando cadere il falcetto e avvicinandosi alla panchina.
Lei sollevò lo sguardo, sorpresa. «Oh… grazie.» Gli porse i fiammiferi e lui, con dita abili, ne accese prontamente uno proteggendone la fiamma con il palmo. Poi lo avvicinò alla sigaretta. Con uno sfrigolio, il tabacco si accese.
«Ecco» disse, riconsegnandole la scatolina di metallo che custodiva i fiammiferi.
La donna lo fissò, incerta. «Vorreste… voi fumate?»
Sorrise. «Qualche volta. Quando ne ho l’occasione.»
Lei sollevò il portasigarette. «Servitevi pure.»
«Grazie.» Ludovico tornò a prendere i fiammiferi e poco dopo un aroma quasi dolciastro gli riempì la bocca. Esitò, perché non sapeva cosa fare. Un tempo sarebbe andato a sedersi in disparte, mantenendo una distanza di sicurezza tra sé e quelli che ‒ come diceva sua madre ‒ erano maggiori di lui. Ma non erano più quei tempi e lui non era più abituato a una condizione di subordinazione.
«Non state in piedi» disse la donna, sorprendendolo. «Sedete sulla panchina. Non vi vede nessuno. Nessuno vi punirà per esservi preso una pausa.»
Ludovico sedette, nascondendo un sorriso. Leggermente girato verso di lei, l’esaminò con attenzione. Ecco una donna di quasi sessant’anni eppure ancora così bella. Aveva fatto il classico patto col diavolo? L’unico tratto che ne tradisse l’età erano i capelli di un bianco quasi argenteo. Giovane o anziana, lei continuava a brillare come una stella.
«Come mai ha il bastone?» chiese.
Lei emise uno sbuffo di fumo dalla bocca. «Sono scivolata sulle scale di marmo del nostro palazzo di città. Ho sempre odiato quel palazzo e alla fine lui mi ha reso la pariglia.» Girò lo sguardo verso di lui, stringendo leggermente gli occhi. «Da quanti anni lavorate nella tenuta?» chiese. «Non riesco a ricordarmi di voi.»
«In realtà sono più di trent’anni che non ci lavoro più. Un tempo lavoravo nel procoio con mio padre, che era il capo dei butteri, ma ho capito presto che non mi sarebbe bastato.»
Rendendosi conto di star parlando con un perfetto estraneo che non aveva niente a che fare con la Villa, Antonietta si agitò leggermente. Se non era un domestico né un ospite, lui poteva essere solo un intruso. Tuttavia sembrava un uomo interessante, e comunque lei era troppo distante dalla Villa perché delle grida d’aiuto potessero essere di qualche efficacia.
«E allora, cosa ci fate qui?» chiese, irrigidendo le spalle come per prepararsi a un attacco.
L’uomo sospirò. «Ripercorro i tempi passati. Sono arrivato in quel periodo della vita.»
«Rimpianti?»
«Ricordi.» L’uomo strinse le palpebre, guardando lontano.
Aveva gli occhi del colore dell’acciaio. Interessante. «E per quale motivo vi siete messo a pulire l’aranceto?»
Lui girò lo sguardo sugli alberi soffocati dalla sterpaglia. «Era un bel giardino. È una vergogna che sia stato abbandonato.»
L’irritazione le mandò il fumo per traverso. Antonietta iniziò a tossire. L’uomo la guardò preoccupato. «Devo chiamare qualcuno?»
«No, per carità» riuscì a dire tra un colpo di tosse e l’altro. «Mi avvelenerebbero la vita con la loro riprovazione. I miei figli, le nuore e i nipoti sembrano credere che io sia ormai una vecchia inferma, incapace di badare a me stessa. Forse si aspettano che mi vada a rinchiudere in qualche convento per terminare la vita tra giaculatorie e messe alle sei del mattino.» Sputò di lato un pezzetto di tabacco, con un gesto quasi mascolino che parve sconcertare l’uomo. «Dite, come vi chiamate?»
«Ludovico Deobaldi» rispose, fissandola come se il nome dovesse dirle qualcosa.
«Antonietta Elvira Bonfiglio» replicò, omettendo il titolo nobiliare. Allungò la mano e lui la strinse, dopo una breve esitazione.
«E… avete figli, nipoti? Una moglie?» non riuscì a evitare di chiedere, con la punta di curiosità interessata che accompagnava solitamente quella domanda.
«Figli, nipoti… La moglie no, è morta dieci anni fa.»
«Ah. Peccato. Mio marito, il marchese, è morto cinque anni fa. Giusto in tempo per salvare tutto questo» commentò, sollevando la mano che reggeva la sigaretta a indicare il giardino e oltre. «È quello che è rimasto, c’è poco d’altro, e adesso i miei figli vogliono che lo venda. Hanno altri interessi, capite» disse con disprezzo. «La politica. Le speculazioni edilizie. La terra per loro è volgare.»
«E lei lascerà che la vendano?»
«Sul mio cadavere» sibilò Antonietta. Batté le palpebre. Che cosa stava facendo? Non conosceva per niente quell’uomo. Solo pochi istanti prima aveva temuto che potesse essere un qualche tipo di criminale… beh, uno molto particolare, comunque. Mai sentito dire che un intruso si mettesse a ripulire un’orangerie. «E voi che cosa avete fatto della vostra vita lontano dal procoio?» chiese, quasi beffarda.
«Sono diventato mercante di campagna» rispose lui. «La mia famiglia ha in affitto la maggior parte delle tenute qua attorno.» Tirò una boccata dalla sigaretta ed emise il fumo lentamente, mentre Antonietta gli fissava la bocca. «Sono io che ho comprato la tenuta agricola da vostro marito» disse alla fine.
«Oh.» Antonietta girò la testa di scatto verso l’ingresso dell’aranceto. «Non ditemi che siete stato chiamato per la vendita della Villa!»
Il volto dell’uomo si aprì in un sorriso che rese più incisive le rughe sul suo volto. Per un istante Antonietta si distrasse. Per un uomo della sua età aveva ancora dei denti magnifici.
«In effetti, suo figlio il marchese ha fatto recapitare un messaggio al mio ufficio. Non mi occupo più d’affari ma non sono riuscito a fare a meno di venire a vedere. Devono essere passati… vent’anni, dall’ultima volta che mi sono trovato da queste parti.»
Antonietta si calmò leggermente. «In ogni modo, non possono vendere senza la mia firma» dichiarò. «Ed io non ho intenzione di firmare niente, vi avverto. La villa è mia e finirà nell’eredità di quello che si dimostrerà il più sensato dei miei nipoti. Ecco tutto.»
Lui parve soppesare le sue parole. «Lei è stata malata, vero? Per qualche tempo.»
«Io… sì. Come lo sapete… come lo sa…» Antonietta non sapeva come rivolgersi a lui. L’iniziale ‘voi’ usato per famigliari e domestici non le sembrava più adatto. Lui non era un sottoposto e neppure una persona umile. Era un uomo d’affari, uno di quegli squali che s’introducevano nelle famiglie nobili in rovina per dilaniare i loro beni, staccare pezzi di terreno morso a morso, finché non fosse rimasto più niente.
«Mi è stato accennato nella lettera. I suoi figli pensano che lei non sia in grado di gestire la proprietà. È possibile che non ci sia bisogno della sua firma, se lei non dovesse essere disposta a concederla.»
Antonietta si sentì soffocare. «Non possono farlo» disse, con voce stridente. «Ho venduto tutto quello che era mio per mantenere la villa. I gioielli più preziosi, i quadri, gli oggetti d’arte…»
«Temo che questo non interesserebbe degli avvocati, un notaio… e neppure un giudice.»
Antonietta fece per replicare ma, sentendosi prossima al panico, ammutolì. Era per quello che l’avevano fatta venire alla Villa, allettandola con l’esca del Natale come ai vecchi tempi. L’aveva intuito, respingendo però il pensiero nel fondo della mente. Tradita. Ingannata, una volta di più. Deglutì, muovendo freneticamente gli occhi sugli alberi, i cui rami erano carichi di frutti che nessuno coglieva.
«Lei è mai stato dentro la Villa?» chiese, piano. La sigaretta si era esaurita nella sua mano. Fece cadere a terra il mozzicone.
«Una volta, con mio padre. Lei mi regalò un sacchetto con una moneta e un santino.» Ludovico Deobaldi rise al suo sconcerto.
«Non me ne ricordo.»
«Io la ricordo benissimo.» La fissò tra le palpebre socchiuse e, per qualche istante, Antonietta non si sentì una signora agèe dai capelli imbiancati, dal cuore deluso e una paura che le frullava impazzita nel petto. Per quegli istanti si sentì di nuovo giovane, bella, sotto lo sguardo d’ammirazione di un uomo attraente.
Scosse la testa, dandosi della sciocca.
«Ricordo l’occasione ma non lei» ammise. «Salii in soffitta per vedere i butteri andar via. Mi fecero… una grande impressione.»
«Io ricordo che i suoi occhi erano i più celesti che avessi mai visto e mi facevano pensare a un cielo estivo» disse lui.
Ci fu qualche secondo di silenzio, durante il quale entrambi valutarono le parole dell’altro. Deobaldi fu il primo a parlare.
«Non può farcela da sola» disse con dolcezza, il sistema usato dagli uomini per far assimilare un contenuto amaro. «Lo sa, vero?»
Antonietta spalancò gli occhi. Dal modo in cui lui sussultò, capì che le sue iridi celesti conservavano ancora parte del loro potere.
L’uomo allungò il palmo di una mano robusta verso di lei. Il suo lavoro di mercante di campagna non doveva essere stato svolto tutto in un ufficio, pensò Antonietta. C’erano callosità, segni scuri indelebili, cicatrici sul quel palmo. La loro vista per qualche motivo la commosse. La rassicurò. Quella non era la mano di un uomo che si giocava ai tavoli la propria vita e quella di chi dipendeva da lui.
«Lasci che la aiuti» disse Deobaldi.
Antonietta allungò la mano esitante e la pose sulla sua. «Come pensa di farlo? Come ha detto, loro hanno alle spalle notai, avvocati, giudici. Forse perfino dottori.»
Stavolta la risata fu più gutturale, terribilmente mascolina ed evocò un fremito nella femminilità sopita di Antonietta.
«Lei non immagina cosa abbia io, alle mie spalle.» Gli occhi color acciaio ebbero un bagliore quasi ferino.
Antonietta sapeva quanta forza di volontà e determinazione, e anche spietatezza, occorresse per emergere dalla condizione in cui lui era nato e arrivare alle altezze cui aveva accennato. Un uomo, pensò. Finalmente un uomo.
«Lei è venuto qua per essere il mio cavaliere?» chiese a voce bassa, temendo che un’incrinatura rivelasse la sua emozione. «Il mio campione in questa contesa?»
Lui si alzò, aiutandola a sollevarsi. «Esattamente» rispose, sorridendo.
Era davvero un’ingiustizia che le rughe fossero a volte così attraenti sul volto di un uomo, pensò lei. Si girò per afferrare il suo bastone ma Deobaldi… Ludovico… la fermò con un gesto.
«Lasci» disse. «Quello non le serve più. Adesso ha me.»
E camminando piano, mano nella mano, uscirono dal giardino degli aranci.