progetto grafico Franlù
Doveva essere una cena come tante insieme agli amici. A dire la verità ero stata tentata sino all’ultimo di dare forfait: non avevo voglia di uscire, l’auto mi aveva abbandonato e l’idea di dover dipendere da qualcuno per poter tornare a casa non mi solleticava per niente. La parola chiave della mia vita era indipendenza: libera come il vento; dopo sacrifici e rinunce finalmente raggiunsi la totale indipendenza da chiunque. Avevo un’età per cui ero circondata da coppie sposate o conviventi, da preparativi per matrimoni e prove con i figli degli amici per vedere come e se ce la si fa.
Vivevo da sola in un bellissimo appartamento con terrazza vista mare, svolgevo e tutt’ora svolgo il lavoro che avevo sempre sognato e guadagno molto, molto bene. Posso permettermi tutto quello che voglio senza dover rinunciare a nulla: shopping nei migliori negozi della città, vacanze da sogno… Vivo nel lusso e non vi dirò “però faccio molta beneficenza” perché non è vero. Faccio il minimo indispensabile per avere la coscienza a posto e a volte nemmeno basta. Non provengo dalla povertà assoluta, eravamo benestanti. Questo finchè paparino non ha deciso di piantare me e mia madre per la compagna di università incontrata alla rimpatriata del ventesimo anno. Avevo dieci anni, mia madre trentacinque. Continuai a vedere mio padre fino a quando non compii quattordici anni poi mi rifiutai: vedere la sua nuova famiglia felice ed essere trattata da tutti, soprattutto da lui, come un ospite indesiderato faceva troppo male. Non ci furono moti di opposizione, anzi, ne fummo tutti molto sollevati. In tutto questo mia madre si limitava a passare da un uomo all’altro, ogni volta sempre più vecchio e ricco. Un giorno mi disse che finchè le avesse retto il fisico lo avrebbe sfruttato. Era molto bella, non dimostrava affatto la sua età e quando iniziarono a intravedersi i primi segni del tempo il chirurgo plastico, ultima conquista, la rimise in sesto. Non credo abbia sofferto molto per mio padre, mia madre voleva solo i soldi e li ha avuti. Non so dove sia adesso, forse in qualche isola tropicale con il suo chirurgo, alla fine si è dovuta accontentare.
Mio padre morì durante il mio ultimo anno di dottorato: non andai al funerale, non mi interessava. Sarebbe stato come andare al funerale di uno sconosciuto. Non piansi, non provai nulla, mi limitai ad apprendere la notizia. Qualche tempo dopo mi arrivò una lettera del curatore testamentario: mi invitava gentilmente a recarmi presso il suo studio per la lettura del testamento. Ci andai, ero curiosa. Scoprii che il caro paparino aveva fatto i soldi grazie a qualche investimento e a qualche colpo fortuito in borsa. Sorpresa sorpresa lasciava tutto a me eccetto la leggittima che spettava alla moglie e ai due figli. Fu così esaltante vedere la faccia livida di quei tre guardami dapprima in cagnesco e poi, dopo aver ricevuto ampie assicurazioni che il testamento era inoppugnabile, guardami come se fossi la fata turchina. Fui subito molto chiara: se avessero provato a contattarmi o avessero chiesto mie notizie tramite terze persone, li avrei denunciati. Se ne andarono con la coda tra le gambe. Anche mia madre provò a far finta di amarmi per arrivare ai soldi, ma, forse perché lei era stanca o forse perché io la conoscevo bene, fu tutto inutile. Da quel momento non l’ho più sentita.
Non ho ancora speso un centesimo dei soldi di paparino. Il lusso in cui vivo dipende solo ed esclusivamente da me. Ecco la mia indipendenza e la mia forza da dove scaturiscono.
Alla fine mi decisi ad uscire: non ero ancora stata in quel ristorante e volevo provarlo da un po’: avrei preso un taxi per tornare.
Giunsi all’appuntamento bellissima nel mio tubino di seta nera, un filo di trucco, chignone per raccogliere i miei lunghissimi capelli neri e tacco dodici per slanciare le gambe. Sono bella, non solo perché passo ore in palestra. Ho un bellissimo viso: labbra carnose, occhi color paglia leggermente a mandorla e naso perfetto. Sono consapevole di questo e con sobria eleganza mi faccio ammirare. Come vedete non sono né buona né modesta.
C’erano i soliti amici: persone della mia cerchia sociale, professionisti affermati, mogli mantenute, donne in carriera… erano divertenti, presi a piccole dosi. L’unica persona che più si avvicinava al concetto di “amico” era David: un arredatore d’interni bravissimo e affermato.
«Carlotta, alla fine sei venuta!»
«Ciao David, sì. Non ho mai cenato qui e volevo provare.»
«Vieni, voglio presentarti mio cugino Alessandro. Si occupa di compravendita di immobili di lusso, è molto bello e affascinante.»
«David, non mi sembra di aver mai avuto problemi con gli uomini. Se è così bello e affascinante perché non ci provi tu?»
«Solo perché è mio cugino, tesoro. Non ho detto che hai problemi con gli uomini. Voglio solo presentartelo.»
Ci facemmo largo tra i vari tavoli per raggiungere il nostro. Da quando lo conoscevo, David aveva sempre provato ad affibiarmi qualche suo amico. Era fastidioso ma, aveva ottimo gusto in fatto di uomini, per questo lo facevo fare: la sua invadenza mi procurava, nei periodi morti, ottimi incontri sotto le lenzuola.
Amo il sesso, amo farlo e amo provare piacere. Non ho inibizioni, sperimento sempre qualcosa e sperimentavo qualcuno di nuovo. Quando mi veniva a noia prendevo la porta e andavo via. Sì, avete capito bene. Nessun uomo ha mai messo piede a casa mia, sono io che mi recavo da loro e sempre io tglievo il disturbo quando il giocattolo perdeva di attrattiva. Tranquilli, non ho lasciato alcun cuore infranto: non li usavo per così tanto tempo.
Finalmente giungemmo al tavolo: tra i soliti noti scorsi una faccia nuova. Non poteva che essere lui, Alessandro. Fu allora che iniziarono i problemi.
Non era bello nel senso classico del termine, la mascella troppo squadrata e il naso importante lo rendevano più che altro affascinante. Quello che mi colpì fu lo sguardo. I suoi occhi trasudavano sesso, letti disfatti, ansimi, passione, nessuna inibizione; immagini e sensazioni che saettavano da lui a me.
Ero certa di non essere la sola tra noi due ad avere già un’idea di come si sarebbe conclusa la serata.
«Alessandro, lei è Carlotta. L’amica di cui ti avevo parlato. Carlotta, lui è mio cugino Alessandro.»
Si alzò in piedi e mi strinse la mano, era molto lieto di conoscermi, si sedette e continuò la conversazione interrotta.
Rimasi impietrita: nessuno si era mai mostrato così indifferente nei miei confronti. Possibile che quel gioco di sguardi fosse tutto nella mia testa? Nessuno mai mi aveva rifiutato. Ero indispettita e dentro di me pensai che sarebbe stato sicuramente meglio rimanere a casa quella dannata sera. Ormai ero lì e dovevo fare buon viso a cattivo gioco. David aveva fatto in modo che mi trovassi esattamente in mezzo a loro due, peccato che di suo cugino vidi solo la schiena per tutta la serata: a quanto pare la neo promossa primario di cardiochirurgia era molto più interessante di me; tutti erano più stimolanti di me.
Mi gustai la cena, feci finta di interessarmi a stupide quanto banali conversazioni e mezz’ora dopo il caffè mi accomiatai accusando un leggero mal di testa.
Iniziai a respirare solo dopo essere uscita dal ristorante. Si andava verso l’estate, l’aria era piacevole e decisi di andare a casa a piedi. Continuavo a pensare al comportamento di Alessandro: impensabile non degnarmi di uno sguardo e guardare quell’insulsa dottoressa. Era sicuramente gay. Per quanto avessi un certo ascendente anche su di loro. No, la spiegazione migliore era che dietro quella facciata da bello e dannato ci fosse un ometto incapace di gestire una donna come me. Per questo aveva battuto in ritirata. Certo, la sua più che una fuga era parsa proprio indifferenza. Evidentemente era molto bravo a dissimulare. Questi pensieri mi accompagnarono per tutto il tragitto verso casa, quasi non salutai Filippo, il portiere del palazzo, per recarmi subito verso l’ascensore, per questo non capii cosa mi disse mentre le porte automatiche si chiudevano.
«Dovresti fare sempre quello che dici Carlotta.»
Era lì, Alessandro era appoggiato alla porta di casa e mi guardava. No, mi fissava con una tale intensità che iniziai a tremare.
«Cosa ci fai qui?»
Mi guardò come per chiedermi se davvero gli avessi posto quella domanda. Mi avvicinai lentamente, infilai la chiave nella serratura e lui si fece dietro di me: potevo sentire il respiro della sua eccitazione.
«Se non ti sbrighi ad aprire la porta sarò costretto a prenderti qui.»
Far entrare un uomo in casa mia era impensabile, o no?
Fu la prima regola che infransi per lui.
Chiuse la porta dietro di noi. Ero nelle sue mani, lo sapevamo entrambi. Mi voltai, mi afferò per i fianchi e mi baciò: le sue labbra erano perfette, morbide e succose; la sua lingua sapeva del vino rosso bevuto a cena: corposo e inebriante. La sua eccitazione era palpabile costretta dentro gli eleganti pantaloni: la afferrai e contemporaneamente mi sentii sollevare da terra. Volevo essere scopata lì e subito, avevo bisogno di sentirlo dentro di me, non potevo più aspettare.
Mi ritrovai catapultata sul letto con lui che incombeva su di me. Ci spogliammo freneticamente. Nudi, ci contemplammo: era perfetto, era uomo, la sua erezione faceva venire l’acquolina. Mi misi in ginocchio e, mentre lui continuava ad osservarmi, iniziai ad assaggiarlo come quando si gusta un piatto per la prima volta: il primo boccone è piccolo, incerto ma, una volta assaporato sulla lingua il sapore, i successivi assaggi divengono piacere, golosità, godimento.
Mi fece tirare su:
«Voglio sentire il mio sapore su di te»
Mi baciò mentre le sue mani esploravano il mio corpo. I capezzoli erano così sensibili da farmi piangere; mi fece sdraiare e la sua bocca raggiunse i seni che imploravano la sua sapienza. Ero smaniosa, il mio bacino sembrava impazzito. Ero così eccitata che sapevo sarebbe bastato un solo tocco per farmi venire.
Si tirò su e mi spalancò le gambe: l’ombra del suo membro sul mio ventre, il suo sguardo sulla mia femminilità, le sue mani sul mio seno…
«Vieni.»
Lo feci e ancora in preda all’orgasmo mi penetrò con forza; urlai aggrappandomi a lui, conficcandogli le unghie nella carne. Era forte e veloce come piaceva a me. Riusciva a raggiungere quel punto dentro di me ancora così piacevolmente infastidito dal primo orgasmo. Lo sentivo dentro, sentivo i suoni che producevano i nostri corpi che si univano, ero persa in quel momento.
Stavo per venire di nuovo e percepivo che lui stava per raggiungermi; esplosi di nuovo e lui un attimo dopo con urlo che sembrava quasi un ruggito. Venne fuori di me. Ero così appagata che lì per lì non ci feci caso.
Si sdraiò di fianco a me senza toccarmi, finalmente un uomo che non partiva dal presupposto che tutte le donne dopo vogliono essere abbracciate.
Dopo alcuni minuti si alzò e iniziò a rivestirsi. Stava andando via, lo guardai: era così sexy vederlo rivestirsi.
«Prendo la pillola, sai, nel caso ci fosse una prossima volta…»
Mi guardò con un sorriso furbo sul volto, si voltò e se ne andò.
Non appena sentii la porta chiudersi dietro di lui pensai a quanto era appena accaduto. Non solo un uomo era entrato in casa mia ma stavo per chiedergli di rimanere. Liquidai tutto pensando che era un po’ che non stavo con nessuno. Mi voltai e sprofonodai in un sonno senza sogni.
Mi svegliai la mattina ancora indolenzita: flashback della notte appena trascorsa facevano capolino sulla mia pelle. Presi il caffè e feci una lunga doccia calda. Mi sentivo pigra, decisi di trascorrere la domenica oziando. Suonò il telefono; non avevo dato il mio numero ad Alessandro ma, con David a fare da tramire, non sarebbe stato difficile procurarselo. Speravo fosse lui, volevo ripetere l’appagante esperienza.
«Ciao!Allora come è andata con mio cugino?»
David. Di solito, nei limiti della decenza raccontavo qualche dettaglio ma quella volta decisi di tenermi per me quello che era accaduto.
«Non so di cosa tu stia parlando.»
«Oh, andiamo Carlotta. Dieci minuti dopo che te ne sei andata Alessandro si è ricordato di un impegno ed è uscito di corsa.»
«Ripeto. Non ho visto tuo cugino se non alla cena. Devi smetterla di fare castelli in aria»
«Come vuoi. Sia chiaro non ci credo, ma, se ritieni di non dovermene parlare non insisterò. Ti ho chiamato anche perché siamo stati invitati all’inaugurazione della casa di Priscilla questo pomeriggio. A che ora passo a prenderti?»
«Non mi interessa la nuova casa di Priscilla.»
«Ti ho detto che ci sarà anche Alessandro? La padrona di casa ha così insistito che mio cugino non ha potuto dire di no.»
«Buon per lui. Scusami ma ora devo andare.»
Riattaccai. Se avessi cambiato idea solo perché ci sarebbe stato anche lui avrei mostrato la mia debolezza, non tanto a David quanto a me stessa. Cosa mi stava succedendo?
Mi preparai l’ennesimo caffè e mi accesi una sigaretta, non ero un’accanita fumatrice ma sapevo apprezzare l’effetto che avevano.
Ricevetti un messaggio da un numero sconosciuto:
“Vieni”
Era lui. Avvisai David di passare a prendermi per le quattro. Non mi importava quello che avrebbe pensato: io sapevo che il primo passo l’aveva fatto Alessandro.
Mi preparai con cura: il vestito corto rosso ciliegia e i capelli sciolti mi avrebbero fatto spiccare.
Arrivammo quasi per ultimi, dovetti amettere che la ristrutturazione della vecchia casa colonica era riuscita perfettamente. Priscilla, alias la mantenuta, sapeva come spendere i soldi del marito. Classico e noioso giro turistico e per fortuna cocktail in piscina. Mi guardai intorno: eccolo, affascinante e particolarmente interessato alla padrona di casa. Al secondo gin tonic decisi che se voleva ignorarmi poteva riuscirci ancor meglio se avessi tolto il disturbo. Cercai di ricordarmi dov’era il “magnifico bagno completamente rivestito di marmo italiano”. Lo trovai al terzo tentativo: fui spinta dentro da due mani grandi e forti, le sue.
Non parlammo, mi spinse contro la porta, tirò su il vestito mentre io gli sbottonavo i pantaloni, spinse le mutandine di lato e mi prese. Mi maledissi ma ero dannatamente pronta. Ci guardammo per tutto il tempo: fu veloce e intenso. Non chiudemmo gli occhi nemmeno mentre raggingevamo l’orgasmo, di nuovo insieme. Venni, lui mi raggiunse poco dopo ma come la prima volta uscì da me.
Non capii ma ero così soprafatta che non riuscii a parlare. Finì di pulirsi, prese un asciugamano da ospite e dopo averlo inumidito si avvicinò a me. Rinfrescò la mia pelle e mi baciò, intenso e indimenticabile. Uscì lasciandomi sola. Aspettai un po’ prima di uscire; la sessione di sesso pomeridiano mi aveva sconvolta.
Quando arrivai a casa andai subito a letto felice che l’indomani sarei tornata al lavoro: una distrazione era quello che ci voleva.
Andammo avanti così per circa due mesi: lui arrivava a casa mia senza preavviso, faceva l’amore, no meglio, mi scopava e se ne andava. Non ci furono cene, teatro, cinema. Non si fermava mai a dormire con me, non veniva mai dentro di me.
Mi sentivo usata? Sì. Mi sentivo sfruttata? Sì. Mi piaceva? Sì. Almeno fino a quando non lo vidi ad una cena di lavoro: la società per cui lavoravo stava investendo in immobili di lusso e chi, se non Alessandro, poteva occuparsene? L’ultimo acquisto fu accompagnato da una festa a cui lui si presentò accompagnato.
Sapeva che ci sarei stata. Perché non era venuto da solo come avevo fatto io? Concludere la serata insieme mi era parso talmente logico e scontato che ero sicura di trovarlo da solo. Invece no; la sua accompagnatrice era perfetta: per quanto mi dolesse ametterlo io e lei eravamo le più belle, solo che lei al suo braccio era anche radiosa.
Mi avvicinai insieme al mio capo alla coppia felice.
«Alessandro, tutto questo lo dobbiamo a te.»
«Sig. Culligan, la ringrazio. Mi permetta di presentarle la signorina Andrè, è appena arrivata dalla nostra filiale di Parigi.»
«Una collega dunque. Incantato»
«Oh, spero in qualcosa di più…»
Lo disse e mentre si girava a guardarlo lui la strinse a sé senza degnarmi di uno sguardo.
«Una magnifica coppia. Mi permetta di presentarle la mia più fidata collaboratrice, signorina Andrè le presento la signorina Asteria.»
«Molto lieta.»
«Molto lieta.»
Dopo, il mio capo la invitò a ballare e rimanemmo da soli. Fu uno strazio: ero convinta che mi invitasse a sua volta ma non lo fece. Non mi degnò di uno sguardo continuando a guardare lei e solo lei. Non provai a fare nulla, mi allontani: il cuore che batteva all’impazzata, la testa leggera e un persistente senso di nausea; raggiunsi di corsa il bagno. Gli occhi bruciavano, le lacrime erano lava sul mio viso e la mia peggior paura si era avverata: non solo ero totalmente dipendente da quest’uomo ma ne ero completamente innamorata. Ero sconfitta e attonita. Avevo passato tutta la mia vita a scongiurare che ciò potesse accadere. Mi ero innamorata di un uomo a cui palesemente non interessava nulla di me. Ero patetica. Nemmeno mia madre era riuscita a fare di peggio. Mi guardai allo specchio: il trucco sfatto, gli occhi gonfi. Mi facevo schifo. Una donnetta qualsiasi abbandonata dall’uomo bello e potente.
Riuscii a sgattaiolare via dalla festa senza farmi vedere da nessuno. Arrivata a casa mandai una mail al mio capo dicendo che mi sarei presa le ferie che aveva insistito facessi. Buttai i vestiti in valigia, lasciai cellulare e computer a casa, presi l’auto e partii.
All’alba giunsi alla mia casa sul mare: era piccola e accogliente: l’avevo arredata un po’ per volta recandomi nei negozi del posto. Era una casa vera, non di rapprensentanza. Lì mi concedevo di essere me stessa.
Passai la prima settimana tra caffè,alcool e sigarette. Non riuscivo a ingoiare altro. Dopo sette giorni stile relitto umano mi decisi a uscire: la passeggiata sulla spiagga corroborò un poco il mio spirito tanto che la fame iniziò ad attanagliarmi lo stomaco. Mi precipitai al minimarket e dopo aver fatto scorta mi precipitai a casa.
Rimasi sorpresa di trovare un’auto a noleggio parcheggiata di fronte a casa mia, ma pensai non mi riguardasse: non ero certo l’unica ad abitare in quella strada.
Entrai dalla porta della cucina e iniziai a prepararmi un’omelette prosciutto e formaggio, lo stomaco non faceva altro che brontolare.
«Da quanto non mangi?»
Feci un salto, mi girai di scatto: Alessandro. Cercai di riprendere il controllo di me stessa.
«Cosa ci fai qui? No, meglio. Come sapevi dove trovarmi?»
La mia voce tremava. Così non andava per niente bene.
«Ho i miei agganci.»
«Ottimo. Adesso vuoi dirmi cosa ci fai qui?»
Meglio, molto meglio. Un punto per me.
«Sei sparita alla festa.»
«Non credevo di doverti rendere partecipe di ogni mia mossa.»
«Ho solo pensato che vedermi insieme a Jenevieve potesse averti turbato.»
Colpita e affondata.
«Beh Alessandro, direi che il tuo ego è smisurato. Ci siamo divertiti per un po’, non mi pare ci fossimo scambiati promesse di amore eterno. Perciò stai sereno, come vedi sto benissimo. Puoi andartene.»
Non so per quanto tempo ci fissammo e basta. Dovetti agrapparmi al bancone della cucina perché le mie mani tremavano. Lui era immobile a fissarmi, nessun muscolo a tradire che non fosse una statua. I suoi occhi però parlavano: delusione? Amarezza? Non capivo.
«Non ce la fai proprio vero?»
«Come scusa?»
«Devi sempre mostrarti così forte e sicura di te? Non ammetterai mai di aver bisogno di qualcuno? Non ti lascerai mai andare?»
«Non capisco di cosa tu stia parlando!»
«Vuoi dirmi che vedermi con Jenevieve non ti ha turbato? Vuoi dirmi che non ti sono mancato? Mi stai dicendo che non provi nulla per me?»
Si precipitò su di me e mi baciò: fu prepotente e cattivo. Lo allontai.
Dovevo dirgli che lo amavo? Per poi essere abbandonata e derisa? No. La sua non era una dichiarazione. Sembrava più che volesse marchiarmi come sua. Era possesso, non amore.
«Credo ti sia fatto dei film Alessandro. Sono venuta qui non certo per allontanarmi da te. Come ti ho detto ci siamo divertiti ma per me finisce qui. Non sei che uno dei tanti.»
Colpito e affondato? Mi guardò per un lungo istante.
«Sai perché non sono mai venuto dentro di te? Perché non volevo darti niente di più di quello che meritavi.»
Lo schiaffeggiai. Bruciavano più gli occhi che la mano.
«Fuori da casa mia.»
«Addio Carlotta.»
«Vai a farti fottere Alessandro.»
Ero così scossa e ferita dalle sue parole che presi il cartone del latte e glielo tirai addosso. Lo presi, in pieno.
«Sei impazzita?»
«Io?! Ti presenti a casa mia senza invito e mi insulti. Io sono impazzita? Non ti ho chiesto nulla io! Non me ne frega nulla di chi ti scopi, hai capito? Chi ti credi di essere? Non sei l’ultimo uomo sulla faccia della terra. Con chi pensi di avere a che fare. Ti odio! Non voglio vederti mai più!»
Urlai così tanto che mi feci male alla gola. Sapete cosa fece il bastardo? Rise. Iniziò a ridere a crepapelle. Rimasi a bocca aperta.
«Stai… stai ridendo di me?»
«Sì!»
«Brutto figlio di…»
Mi circondò con le braccia e mi baciò prima che potessi finire la frase. Fu tenero e passionale. Non era mai stato tenero con me.
«Ti amo anch’io Carlotta.»
«Non ho… non ho mai detto di amarti.»
«Lo so, per quello dovremmo lavorarci ancora un po’. Confido però nella tua superba intelligenza. Fammi strada, voglio fare l’amore con te.»
Mi prese in braccio e mi condusse su per le scale sino alla camera da letto. Mi spogliò lentamente lasciando una scia di baci su tutto il mio corpo. Una volta completamente nuda mi permise di spogliarlo e di sentire il suo sapore. Facemmo l’amore lentamente, per ore. Sentivo il mio corpo bruciare e godere e finalmente lui si concesse completamente a me; sentire la sua essenza dentro di me mi procurò il più bel orgasmo della mia vita. Gli dimostrai con il mio corpo quello che ancora non riuscivo a dire. Rimanemmo abbracciati per ore a parlare, facemmo il bagno insieme e mi imboccò. Facemmo di nuovo l’amore con più passione e consapevolezza.
L’avevo colpito sin dalla prima sera alla famosa cena ma David gli aveva parlato della mia visione della relazione uomo donna perciò aveva deciso di cambiare tattica. A quanto pare era stato premiato.
Sono passati cinque anni da allora: ho assunto il controllo dell’azienda per cui lavoravo, ci siamo sposati e il primo erede è in arrivo. Non ho perdonato mio padre né ho recuperato il rapporto con mia madre. Amare Alessandro e i nostri figli mi ha fatto ricongiugere con me stessa, ma Carlotta è sempre Carlotta. Certo meno indipendente ma sempre consapevole della sua forza e di se stessa.
P.S non finisce un giorno che non dica ad Alessandro quanto lo amo.