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Lo scrigno delle emozioni: “Il principe della notte” di Giuliana Leone

progetto grafico Chicolena

Sbuffo. Non ho mai capito per quale stupida ragione, i reparti di questo supermercato, vengano spostati circa ogni due settimane.

Dover perdere dieci minuti per trovare una confezione di latte è assurdo. Soprattutto quando si tratta dei miei UNICI dieci minuti di pausa. Per fortuna sono riuscita a pranzare con un tramezzino attraversando la strada. Mangiare camminando è una cosa a cui sono abituata da anni. È piuttosto comune nella mia città.

Guardò l’orologio. Ne mancano esattamente quattro e poi il mio cellulare inizierà a suonare.

“Devi dare il buon esempio, Kelly.” Mi echeggia in mente.

Per un secondo penso di rubare la confezione di latte dal cestino con le ruote di una vecchietta poco distante. Se lo facessi, mi avanzerebbero due preziosi minuti. L’idea è troppo crudele per essere presa sul serio, quindi desisto immediatamente.

Poi, finalmente, vedo un commesso vicino al reparto surgelati. Supero rapidamente un carrello abbandonato e svolto a sinistra, seguendo la mia unica fonte di salvezza.

Per un pelo non mi schianto contro un ragazzo con un foglietto in mano. Lui apre la bocca come a voler dire qualcosa, ma poi tace. Rimango qualche secondo in attesa. Osservo ancora una volta il ciuffo dipinto di grigio tirato all’indietro, incerta anche io se debba dirgli qualcosa. Lo squillare del telefono mi ricorda di non avere più tempo nemmeno per pensare. Scappo via dal supermercato, in ritardo e senza latte.

Per fortuna per raggiungere il negozio, non devo fare altro che attraversare al semaforo e svoltare a sinistra. Stranamente oggi è verde. Non capita quasi mai. Faccio mezzo passo in avanti, quando qualcuno mi afferra per una spalla. Mi volto, e lo vedo, il ragazzo dal ciuffo grigio.

“Sai chi sono?” Domanda pieno di aspettativa. Lo guardo scettica. Non sono sicura di doverlo prendere seriamente. Il suo viso si colora di quella che mi pare soddisfazione. Prima di avere il tempo di analizzare la sua reazione incongruente… mi bacia. Rimango talmente di sasso per via della situazione assurda, che quando tento di spingerlo via ormai si è già spostato da solo.

“Ma chi diavolo sei?” Urlo. Vorrei anche chiedergli:

Cosa vuoi? Perché mi hai appena dato un bacio sulle labbra? Sei un pazzo pervertito?

Solo che non riesco a pronunciare un altra sola parola. Mi accorgo che le dita semiaddormentate dall’aria gelida, tremano. Succede sempre quando qualcosa mi sconvolge.

“Davvero non sai chi sono?” Domanda nuovamente lui. Faccio un passo indietro per sicurezza e poi scuoto la testa.

Non voglio dirglielo, però lo so. Cioè no, non so chi sia. Tuttavia sento che dovrei saperlo. Mi spiego meglio, nel momento in cui i nostri sguardi si sono incrociati, è stato come se si fosse accesa una lampadina nella mia testa. È come se il ricordo di questo ragazzo fosse seppellito da qualche parte della mia mente. Quasi come se venisse da lontano, da un’altra vita. Sì, credo di sapere chi sia. Solo che non lo ricordo.

Intravedo con la coda dell’occhio il semaforo diventare rosso per i pedoni.

“E se ti dicessi che quando una persona nasce, essa nasce in tre posti differenti?”

“Tipo in Alaska, in Giappone e in…”

“Non proprio…” Mi interrompe.

“Come spiegartelo in maniera semplice?! Beh… due altre te stanno vivendo un’altra vita in due posti molto diversi da questo. Solo che le stelle, che di solito non sbagliano mai, pare abbiano messo una ‘Te’ in un posto sbagliato. E come se non bastasse se ne sono accorti un po’ troppo tardi. Ehmm… che ne diresti se ti spiegassi tutto davanti a un caffè?” Sono talmente confusa da non riuscire nemmeno a rifiutare.

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“Quindi… come vi siete accorti che una delle “Me” non è al posto giusto? Come hai fatto a trovarmi? In che modo io posso “Io” esservi d’aiuto?” Chiedo, subito dopo esserci seduti. Abbiamo scelto il bar più vicino. Per un motivo o per un’altro, entrambi non abbiamo tempo da perdere.

“Che ne diresti di iniziare con le presentazioni?” Propone, sollevando un braccio per attirare l’attenzione di un cameriere.

“Credo sappia già chi sono!”

“Già. Ma tu non sai chi sono io. Arn, piacere.” Ha sulle labbra un accenno di sorriso che non riesco a catalogare. Quando il cameriere si avvicina al tavolo, realizzo di dover ordinare qualcosa nonostante il mio stomaco sia chiuso. Scelgo la mia bevanda preferita, sperando di riuscirla almeno ad assaggiare.

“Lo abbiamo capito perché l’altra Kelly non ha sviluppato le qualità che la rendevano quella giusta. Le stelle mi hanno detto dove trovarti. Tu ci aiuterai prendendo il posto della Kelly sbagliata. Che in altre parole vuol dire, ritornando al posto che ti spetta.” Prosegue non appena siamo nuovamente da soli.

“Cosa? Io non vado da nessuna parte. Chi sono queste stelle? Dov’è questo posto?” Chiedo, pronunciando più piano l’ultima parola.

“Ascolta, non posso rispondere a tutte le tue domande e non posso spiegarti adesso tutto quello che vorresti sapere. Devi solo fidarti. Non hai idea di quello che succederebbe a questo mondo se tu non ci aiutassi. Il posto dove andremo si chiama Arkansa. È da lì che vengo.”

“Ok. Ci penserò, va bene? Adesso però devo proprio scappare. Rispondi solo all’ultima domanda.” Arn annuisce, mentre il cameriere poggia sul tavolo le tazze. Il mio caffè macchiato con vaniglia profuma, ma sono cerca che non riuscirò a berne nemmeno un sorso.

“Per quale ragione mi hai baciato?” Chiedo, improvvisamente con la gola secca. Ho difficoltà a deglutire e sono costretta a mandare giù un minuscolo sorso. Il liquido e la tazza sono così caldi da farmi rischiare un’ustione alle mani e alla lingua.

“Dovevo assicurarmi che mi riconoscessi. In realtà dal tuo sguardo ho capito subito che lo avevi fatto. Che vuoi che ti dica, mi piace essere teatrale.” Scoppia a ridere, facendomi accigliare. Presuntuoso com’è non si meriterebbe affatto il mio aiuto.

“Quindi vuoi dire che tu e l’altra me…”

“È più complicato di così. Te lo spiegherò un’altra volta. Comunque no, non ancora. Però Arnok e e Tresha stanno già insieme da un pezzo.”

“Chi?” Domando, mordendomi il labbro. Mi sembra di fare su e giù con l’ottovolante. Ogni volta che credo di avere, in parte, capito qualcosa, ne salta subito fuori una ancora più complicata.

Arn scuote la testa e sistema dieci sterline sul piattino del conto. Non risponderà più a una sola domanda. Il telefono squilla di nuovo. Sono in un mare di guai. Faccio un segnale ad Arn e mi catapultò fuori.

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“Kelly Dixon, spero tu abbia una buona scusa. Questo è il ritardo dei ritardi!” Pronuncia severa la signora Moore Dixon, mia madre.

“Mi dispiace, mamma.” Dico, togliendomi il cappotto color carta da zucchero. “Non ho trovato il latte, comunque.” Concludo, defilandomi prima che mia madre possa aggiungere altro.

Esco sul retro, con la scusa di controllare che tutto sia a posto. In realtà spero solo di poter guadagnare un paio di minuti. Ho ancora bisogno di un po’ di tempo per riflettere. Il pensiero di dover passare altre cinque ore in negozio, per di più, mi fa venire il voltastomaco, soprattutto dopo tutte le cose sconcertanti che mi ha raccontato Arn.

“Tua madre ha dato di matto, poco fa.” Sbotta Alisha, seminascosta dietro il tavolino delle piante grasse. A dirsi dalla sigaretta tra le dita e dal nascondiglio, probabilmente avrà avuto anche lei la mia stessa idea. Alisha è una delle altre due commesse di sua madre. E questo è il negozio, un negozio di fiori. Ce ne sono pochissimi in città, come d’altronde di clienti.

Alla fine dell’ultimo anno di liceo, ho deciso di prendere un anno sabbatico prima di iscrivermi all’università. La proposta è stata accolta fin troppo bene dai miei genitori, da illudersi che non fosse una trappola.

“Ottimo, aiuterai tua mamma in negozio!” Aveva infatti esclamato papà. E così ero stata incastrata. E lo sarei stata fino a dopo l’estate.

“Io e Rick abbiamo rotto. ” Dice Alisha, spegnendo la sigaretta contro il muro.

“Vuoi che provi a convincere mamma a mandarti a casa, per oggi?” Alisha dice di no e torna dentro.

So già come passerò il resto della giornata. Ho da preparare una composizione per un matrimonio, che mi terrà impegnata la maggior parte del tempo. Soprattutto visto che mi tocca andarla a consegnare e sistemare di persona. Se non altro però, si tratta di una buona scusa per allontanarsi dal negozio. La sposa mi ha lasciato carta bianca, tranne per quanto riguarda il colore: fiordaliso.

Anche se il negozio è ben fornito, non abbiamo abbastanza fiori azzurrini per allestire un’intera chiesta. È raro che gli sposi richiedano un unico colore. Abbiamo ovviato il problema contattando un fioraio in una città vicina.

Ormai mancano pochi minuti all’appuntamento. Una volta arrivato il camioncino refrigerato, caricherà il resto dei fiori e andremo insieme alla chiesa. Non è la prima volta che Willy viene in nostro soccorso con le riserve. Due mesi fa è successo per un concerto di una band svedese. Il cantante ha esatto che il palco venisse ricoperto di fiori arancioni. Desiderava esibirsi immaginando di essere su un campo di ibisco.

Dalla vetrata vedo il furgoncino fermarsi. Alisha è già fuori con le braccia piene di fiori.

“Sono per me? Grazie cioccolatino.” Dice Willy ammiccando scherzoso. Io e mia madre li raggiungiamo con il nostro carico di fiori.

“C’è un problema… ma niente panico. Mio padre ha dato via tutti i fiori fiordaliso giusto stamattina per un evento di beneficenza. La buona notizia è che ho contattato già una ditta che conosco e saranno qui tra poco. Intanto portiamo questi fiori in chiesa e iniziamo il lavoro. “

Alisha si sistema i riccioli afro e sale al lato passeggero. Io aspetterò la ditta.

********************

“Dove diavolo sono? Avrebbero dovuto essere qui!” Si lamenta la mamma più di un’ora dopo. Non ha fatto altro che passeggiare da una punta all’altra del negozio, borbottando. Sono rimasta a osservarla dalla scrivania con i nervi sempre più in tensione. Un’altra sola parola ed esploderò. Provo un odio viscerale, più o meno da quando sono nata, per la sua continua insofferenza. Pur di alzarmi dalla sedia, che improvvisamente mi sembra terribilmente scomoda, decido di andare a controllare per la terza volta il retro. Come se potesse succedere qualcosa di diverso dal solito; un bel niente.

Quando torno nella sala principale, mi accorgo della presenza di un cliente. Il primo del pomeriggio. Per lo meno cinque minuti di distrazione dalle angosce della mia ansiosa genitrice.

Non ho nemmeno bisogno di avvicinarmi per vedere chi sia. Il ciuffo tinto di grigio, perfettamente tenuto indietro da pettine e gel dice tutto da solo. Ma non serve quello per riconoscerlo. Lo riconoscerei ovunque, ne sono sicura. Proprio per questa ragione devo scoprire il perché.

“Che ci fai qui?” Bisbiglio avvicinandomi a lui.

“Hai deciso se ci aiuterai?” Scruta i fiori con indifferenza, come se avesse studiato teatro per anni.

“Scherzi? Sono passate solo un paio d’ore.” Rispondo, cercando di mantenere il tono della voce basso. Arn fa finta di indicarmi dei fiori all’esterno e usciamo.

“Zitta. Non parlare. Mantieni un basso profilo.” Dice afferrandomi un polso. Ancora una volta mi dà l’impressione di recitare una parte, forse di qualche film poliziesco. La sua aria divertita non lo abbandona nemmeno adesso che pronuncia parole che mi fanno paura. Mi guardo intorno ma non vedo niente di strano. Orde di persone che camminano svelte; tutto regolare.

“Di che diavolo parli?” Domando, cercando invano di liberarmi dalla sua presa.

“Devo portarti via di qui. Non c’è tempo per spiegare.”

Portarmi via?

Lo scruto per capire se sia serio. Lo è.

“Sto lavorando. Mia madre mi ucciderà.”

“No! Tu ti ucciderai. E farai uccidere anche tutto il resto del mondo, se non verrai.” Seppur riluttante mi lascio trascinare via.

Fino a oggi ho sempre creduto di avere un’andatura veloce, non è così. Arn si muove rapido tra le strade affollate e io ho difficoltà a mantenere il suo passo. Il mio polso è ancora stretto nella sua presa salda. Spintono persone, incespico e non ho nemmeno il tempo di scusarmi con loro. Entriamo in un supermercato, prendiamo le scale mobili per il primo piano, poi quelle per il pianterreno.

Non serve dirlo, stiamo scappando. Usciamo dal parcheggio interno del centro commerciale e questa volta scegliamo solo stradine secondarie. Arriviamo in una zona pericolante della città, che non conosco bene. Le strade sono deserte, tranne qualche solitario ebreo ortodosso con il suo ricciolo e il suo cappello. Le villette non sono diverse da quelle delle altre zone: grandi finestre, mattoni rosso bruciato e piccoli prati. Solo che qui sono molto più vecchie e le strade più sporche.

Arn si guarda intorno e poi si dirige verso un negozio. Vende oggettistica stravagante, pezzi vintage e rock. La città ne è piena.

Per quale ragione scegliere proprio questo così distante?

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Sfioro dei dischi in vinile pieni di polvere, aspettando che Arn le spieghi perché siamo qui.

“Non siamo qui per travestirci, vero?” Dico indicando delle parrucche dai colori fluo. So che non è così, però mi sembra divertente.

“Direi proprio di no!” Mi rassicura, scoppiando a ridere. Ha una risata spensierata, piacevole, mi accorgo.

Fa cenno con la testa e lo seguo. Si sposta verso la cassa, attraversando il pienissimo, claustrofobico negozietto. Il cassiere fissa Arn per un attimo. I suoi occhi sono di un colore innaturale; giallo intenso. Arn allunga il braccio e sposta appena il polsino della camicia per mostrare la pelle nuda. Faccio un passo in avanti e mi accorgo di un piccolissimo tatuaggio nella parte interna del polso. Dalla mia posizione non riesco a discernere bene cosa sia. Il cassiere lancia appena uno sguardo al tatuaggio e annuisce.

“Mi serve un lasciapassare per lei.” L’ uomo, si gira verso di me, quasi accorgendosi solo adesso della mia presenza.

“Niente da fare. Non ci sono eccezioni per chi non ha il pass. Hai idea di cosa succederebbe se quelli come lei avessero il permesso di entrare ad Arkansa?”

“Ma lei non è una umana…”

Certo che lo sono!

Ho voglia di protestare ma so che non sarebbe saggio.

“Le stelle hanno commesso un errore, devo effettuare lo scambio. Lei è la Lucente. Ne avrai sentito parlare, avanti. Non si parla d’altro ad Arkansa, ultimamente.”

“Tu sei Arn? Il Principe della Notte?” Sgrano gli occhi.

Ho sentito bene?

Arn annuisce al cassiere, o a chiunque sia questo essere dagli occhi gialli.

“La Lucente è sotto la tua protezione, ma il suo lascia passare è a breve scadenza. Assicurati che venga regolarizzata al più presto. E ovviamente occupati di far tornare sulla Terra la Lucente sbagliata. Nei registri risulterà che c’è qualcuno di troppo.”

Arn mi afferra la mano, prendendomi alla sprovvista e facendomi sussultare. Mi scopre il polso, scostando appena il cappotto. Il cassiere passa il palmo aperto su di esso, facendo comparire lo stesso piccolo tatuaggio. L’unica differenza è che questo lampeggia, compare e scompare ogni secondo. Guardo da vicino il simbolo. È un sole, poco più piccolo di un Penny.

Arn apre una porta accanto alla cassa e io lo seguo. Entriamo in un corridoio che sembra infinito. Ha l’aria di essere scavato nella pietra.

*********************

“Quello è il Guardiano di Arkansa.” M’informa, non appena imbocchiamo il corridoio umido. Sfioro la parete grezza, bagnandomi le dita di condensa. Immagino somigli a una grotta, anche se non ne ho mai visitata una.

“Sei un vero Principe?” Chiedo, sentendomi stupida. La mia sensazione di goffaggine accresce quando rischio di inciampare sul pavimento buio.

“Sì, ma è più complicato di così.”

Questa l’ho già sentita…

“Cosa è una Lucente? Cosa…” Mi interrompo. Se comincio a conoscerlo, non risponderà alle mie domande. Ho fatto da trottola per mezza città e sono stanca. Meglio risparmiare le forze.

C’è un uomo, mi accorgo. Indossa un mantello blu col cappuccio ed è seminascosto in un angolo. Appena si accorge del mio sguardo su di lui, fa qualche passo verso di me. Ricorda i venditori di strada della mia città. Si avvicinano per proporti la loro offerta, solo se gli dai la possibilità di incrociare il tuo sguardo. Cosa che sto ben attenta a non fare, di solito.

“Tre carte per te. Pescane una.” Dice riferendosi alle tre grandi carte che sorregge con una mano.

“No, grazie.” Risponde Arn, facendomi segno di accelerare il passo. “Mendicanti. Vendono o barattano magie. Meglio non fare affari con loro.”

Decido di non soffermarmi, almeno per il momento, sulla parola MAGIE, per me fino a oggi relegata solo alle streghe dei cartoni animati.

Improvvisamente, al centro del corridoio che sembra senza fine, appare dal nulla una porta.

“Questa è la tua prima vera prova. Vedi qualcosa lì in fondo?”

“Una porta?” Dico sarcastica. Mi prende in giro?

“Bene. Gli esseri umani la vedono solo se sanno della sua esistenza. È una sorta di sistema di sicurezza. Il fatto che tu la veda, vorrà probabilmente dire che i saggi hanno ragione.”

Il vorrà probabilmente non mi convince molto, a essere sinceri.

Non appena ci separano solo una manciata di centimetri dalla porta, questa si apre da sola. Al suo interno riesco a scorgere il resto del corridoio.

Che ragione c’è di piazzare una PORTA che non PORTA da nessuna parte?

Arn l’attraversa e io faccio lo stesso. Si percepisce un rumore di corrente elettrica provenire dal passaggio. Ed effettivamente, quando ci passo in mezzo, mi pare di sentire un’impercettibile scossa. Non appena sono dall’altra parte, mi accorgo di qualcosa di diverso nel corridoio. C’è una porta, che nel corridoio infinito non c’era, a una decina di metri di distanza da dove ci troviamo. Quindi, probabilmente, si tratta di due diversi corridoi, seppur quasi identici.

Arn raggiunge la seconda porta, che invece dell’altra ha l’aria di essere sempre stata qui e di non essere sospesa nel nulla; infatti è saldamente incastonata alla parete. E inoltre questa non si apre da sola, scopro ben presto. Ci ritroviamo in un pianerottolo piccolo e spoglio. Una luce a neon funziona solo per metà. Osservò gli scatoloni in un angolo e i grovigli di polvere e capelli sulla moquette in gomma grigia, cercando di capire che posto sia. Il ronzio regolare proveniente dalla stanza accanto ricorda uno studio dentistico. Sulla sinistra ci sono una porta blu e accanto mezza rampa di scale. Quando sto per girare la maniglia, Arn mi ferma.

“Non c’è bisogno di passare da lì. Usciamo dal retro.” Scendiamo la mezza rampa e arriviamo davanti a un portone di ferro, di quelli che ci trovano spesso dietro gli edifici. Non so che ore si siano fatte, ma quando usciamo è buio. L’aria è calda, calda come non lo è mai stata delle mie parti. Mi sfilo il cappotto e osservo il paesaggio. Anche questo è parecchio differente. Nessuna villetta dai mattoni rossi, niente che possa farmi pensare di essere ancora sul suolo inglese. Sopra l’edificio dal quale siamo usciti, c’è un insegna luminosa. Mi accorgo di cosa si occupano; tatuaggi.

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StaffRFS

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