progetto grafico Federica
È stata tutta colpa del kilt.
O forse no, la colpa è stata del referendum.
Oppure il colpevole sono io, sono sempre stato io.
Se aveste visto Will con indosso quel kilt, magari mentre cammina e voi lo seguite, perché è tutto quello che avete sempre fatto, sin da quando avevate otto anni e lui era un bambino pelle e ossa, con le ginocchia perennemente sbucciate e le ossa dei polsi troppo sporgenti dalle braccia magre, allora capireste.
Se l’aveste visto così, con i muscoli allungati da calciatore che fanno capolino e gli anfibi mezzi slacciati che gli accarezzano i polpacci a ogni passo, capireste che forse, molto probabilmente, una buona dose di colpa potrebbe essere addossata anche a quel kilt.
Una striscia di stoffa, la lana quasi assente a favore delle fibre sintetiche, perché era tutto quello che poteva permettersi quando si è messo in testa che ogni bravo scozzese dovrebbe indossare il kilt ogni giorno. La fibbia sempre lucida sul fianco, appena sotto l’orlo dell’ennesima maglietta mezza stracciata di una qualche band semisconosciuta che “devi assolutamente ascoltare, Sean, ti friggeranno il cervello.”
E il giubbino, quel vecchio pezzo di pelle sdrucita, con la cerniera rotta e la fodera delle tasche sfondate, residuato di qualche guerriglia urbana, lasciato a marcire in un campo da un vecchio punk disilluso e ritrovato da una coppia di ragazzini che stavano facendo sega a scuola.
Quando se l’era infilato per la prima volta, le maniche gli coprivano la mano fin quasi alla punta delle dita. “È perfetto.” Dio, la voce roca del Will preadolescente, tutto eccitato per quel mucchietto di spazzatura.
Mi ero eccitato anch’io.
Will amava alla follia il suo giubbino. E amava alla follia il suo kilt, con le righe blu sbiadito che si vedevano appena nella trama verde scuro della stoffa.
Io amavo alla follia Will.
Credo di averlo amato sin dalla prima volta, quando la sua testa era sbucata sotto al tavolo dov’ero rintanato, impegnato a far correre una coppia di macchinine sul pavimento unto del pub.
“Io prendo quella rossa.” Si era infilato tra le gambe degli sgabelli e mi aveva teso una mano, un sorriso di sfida sul volto e un’ombra in fondo agli occhi azzurri. Una preghiera silenziosa che non avevo potuto ignorare, perché anch’io conoscevo la solitudine.
Avevamo fatto gareggiare i nostri bolidi per tutta la sera, mentre suo padre si scolava una pinta dopo l’altra e il mio gliele versava, in piedi dietro al bancone.
Io ero il figlio del padrone, ecco perché giocavo nella sala fumosa, pur di non restare solo in casa ad aspettare che anche l’ultimo ubriacone se ne andasse barcollando e mio padre chiudesse l’attività di famiglia.
McAllister e figli recitava l’insegna, appesa sul lato dell’edificio a cigolare da tre lunghe generazioni. “Tu sarai il quarto McAllister a spillare birra qui dentro.” L’orgoglio nella voce dell’unico genitore che avessi mai avuto non aiutava a mitigare l’orrore, che mi stringeva lo stomaco al pensiero di restare intrappolato in quella stanza puzzolente per tutta la mia vita, com’era successo a lui.
Non conoscevo il motivo per il quale anche Will seguisse il padre al pub, sebbene, dato il loro reciproco totale disinteresse, avrebbero potuto essere due perfetti estranei. Durante quelle prime sere della nostra amicizia non li vidi mai parlare, nemmeno scambiarsi uno sguardo, uno di quelli che ogni tanto ci lanciavamo io e mio padre attraverso la sala, lui per controllare che io non stessi infastidendo i clienti e io per assicurarmi che la sua presenza massiccia fosse ancora lì, incastonata tra boccali e bottiglie.
Avrei dovuto capire molte cose da quel palese ignorarsi l’un l’altro, ma ero solamente un bambino triste, eccitato dall’idea di avere finalmente un amico.
La prima volta che il Signor Campbell rivolse la parola a suo figlio davanti a me fu una decina di giorni dopo il nostro primo incontro, quando venne il momento di abbandonare lo sgabello che sembrava tenerlo inchiodato al bancone.
Will ed io eravamo seduti vicino all’uscita a uno dei tavoli vuoti, impegnati ad assemblare i pezzi di un robot che non volevano incastrarsi l’uno nell’altro. Suo padre esitò un istante con la mano sulla maniglia, poi inclinò la testa nella nostra direzione e sbiascicò una frase che, ripensandoci, avrebbe dovuto essere rivelatrice.
“Tu cosa ci fai qui, stronzetto?”
Will aveva lasciato cadere sul tavolo scheggiato i pezzi non appena il padre si era alzato, segno che, nonostante sembrasse non guardarlo affatto, teneva d’occhio ogni sua mossa. “Niente”, mormorò con gli occhi bassi, scivolando giù dalla sedia dal lato esterno, in modo da frapporla tra di loro.
Suo padre storse la bocca. “Fila via,” sibilò aprendo la porta.
Senza salutarmi né guardarmi, con gli occhi bassi e l’espressione guardinga, Will sgusciò fuori dal proprio angolo protetto e superò il padre. Non aveva ancora raggiunto l’uscita, che l’uomo allungò malamente un piede come per colpirlo e spingerlo fuori.
La rapidità con la quale Will schivò il colpo, torcendo il busto mentre i suoi passi veloci si tramutavano in una corsa vera e propria, avrebbe dovuto dirmi qualcosa, molte cose, ma ripeto, ero un bambino. Solamente qualche anno dopo, aggiungendo quella scena a molte altre, compresi che l’interazione tra padre e figlio non era mai pacifica, né indolore.
Nel locale, quasi vuoto per l’ora tarda, nessuno prestò attenzione a quel breve momento di vita familiare, anche se, probabilmente, pochi avrebbero trovato qualcosa da ridire in merito. Forse non gradivo le aspirazioni di mio padre per il mio futuro, ma crescendo capii ben presto che molti ragazzini dovevano convivere con sorti peggiori della mia, combattendo giornalmente contro botte e insulti.
Will era uno di loro.
A otto anni, tuttavia, certi particolari tendono a sfuggire, soprattutto se non li si è mai sperimentati sulla propria pelle. Scoprii come mai Will sfidasse a quel modo l’ira del padre, continuando a tornare ogni sera, qualche settimana dopo, quando riuscii a racimolare abbastanza coraggio da invitarlo su in casa.
Chiedere a un amico se voleva giocare in camera mia era sempre sembrato un ostacolo insormontabile, soprattutto perché nessuno dei compagni, a scuola, mi rivolgeva la parola. Oppure ero io a non parlare con loro, la lingua paralizzata in bocca al solo pensiero di rischiare un approccio che andasse oltre un saluto borbottato.
In ogni caso, fu bellissimo guardare Will che curiosava tra i libri impilati sugli scaffali, rovistava appena nel cesto dei giocattoli e poi si lasciava cadere con un sospiro sul mio letto, i capelli nerissimi in contrasto con il copriletto chiaro.
“Mi piace qui.” Il suo sorriso era così ampio che s’intravedeva il buco lasciato da un dente caduto, proprio nel mezzo. “Non c’è puzza come da me.”
Avevo aperto la bocca, credo, per chiedere cosa ci fosse, che puzzasse, nella casa che non aveva mai nemmeno nominato in tutte le ore passate insieme, ma quell’ombra era ancora lì, a offuscare l’azzurro limpido dei suoi occhi. Perciò mi ero seduto sull’angolo del letto, in attesa, come se quella non fosse la mia stanza e spettasse a lui prendere l’iniziativa e proporre un gioco. Tra noi, già allora, le cose funzionavano così: lui guidava, con il suo slancio un po’ folle, mentre io lo seguivo con quieta fiducia.
Si era fregato gli occhi con il dorso di una mano, il polso ossuto che spuntava dalla manica troppo corta del maglione, poi aveva parlato piano, senza guardarmi in faccia: “Il tavolo della cucina è ricoperto di pastiglie, ma la mamma non guarisce.” Non potevo capirlo, allora, ma il dolore nella sua voce sottile era di quelli che spezzano il cuore, che segnano a vita.
Invece, azzardando un sorriso, gli avevo detto: “Guarirà di sicuro, se prende tutte quelle medicine.”
Will si era girato e aveva storto la bocca. “Vomita tutto il tempo e tiene un fazzoletto sulla testa, così non si vede che le sono caduti i capelli.” Si era stretto nelle spalle, già tanto magre. “A volte penso che non le passerà mai,” aveva bisbigliato, come se dirlo a voce più alta potesse renderlo una verità assoluta.
Eravamo rimasti così, lui sdraiato di traverso e io seduto lì accanto, senza pronunciare un’altra parola, rassicurati dal sentire il respiro l’uno dell’altro e di sapere che, per una volta, non eravamo soli.
A volte mi sembra di essere stato seduto al suo fianco, in attesa, per tutti i due anni successivi: l’infinito periodo di agonia che servì al cancro per svuotare sua madre di ogni briciola di vita, riempire suo padre di tutto l’alcol possibile e nutrire l’ombra che cresceva dentro a Will.
Poi, un giorno piovoso come un altro, la signora Campbell chiuse gli occhi, distendendo finalmente le profonde rughe di sofferenza che le solcavano il volto, suo marito finì l’ennesima bottiglia di whisky e Will si presentò in camera mia a metà pomeriggio, strisciò sotto le coperte senza dire una parola e dormì fino al mattino successivo.
Capii senza bisogno di chiedere che sua madre era morta: si aggrappò talmente forte alla mia mano, mentre mi trascinava nel letto insieme a lui, che due giorni dopo, al funerale, non riuscivo ancora a distendere del tutto le dita.
*****
A dieci anni, entrambi orfani di madre, seppure in modo diverso, con padri troppo presi dall’alcol, versato e bevuto, per accorgersi di noi, eravamo liberi.
Era bellissimo, quel senso di leggerezza, la consapevolezza che il mondo era un’immensa avventura in attesa di essere vissuta, insieme.
Era terribile, quel senso di vuoto, la consapevolezza che il mondo era un buco freddo e ostile, pronto a schernire la nostra innocenza e divorarci vivi, nonostante fossimo insieme.
Dopo, per qualche anno, c’è stato solo il calcio. Correre sull’erba bagnata, scivolare nel fango e boccheggiare per il dolore di un colpo troppo duro. Dimenticare il vuoto che ti sta scavando dentro e concentrarsi su una sfera bianca, che rotola davanti a te e non ti tradisce.
Will e il calcio, due fedi ugualmente forti.
Nessuno ci aspettava a bordo campo durante le partite, gridando incitamenti e sbracciandosi come facevano i genitori dei nostri compagni di squadra. Mio padre era troppo impegnato con la gestione del pub, anche se mi salutava sempre con un augurio quando uscivo con la borsa in spalla; il signor Campbell, dal canto suo, non credo nemmeno che sapesse quello che faceva suo figlio ogni Sabato pomeriggio.
Di sicuro non spese mai un soldo per la passione di Will. Quando avevamo dovuto pagare l’iscrizione alla scuola calcio per la prima volta, sapendo che lui non avrebbe potuto farlo, avevo cercato di prendere il denaro per la quota di Will dal fondo cassa del pub.
“Cosa fai?” Mio padre non sembrava arrabbiato, ma non osavo girarmi per accertarmene.
Mi tremavano le mani, sapevo che rubare quei soldi era stupido e mi ci era voluta un’intera settimana per convincermi a provarci. “N-niente,” bisbigliai, inghiottendo saliva e senso di colpa.
Le braccia di mio padre, incrociate sul ventre tondeggiante, entrarono nel mio campo visivo, che non andava più in alto, dato che stavo fissando le assi lucide della pedana dietro al bancone. “Per cosa ti servono quei soldi, Sean?” Ancora niente rabbia, solo interesse e un accenno di delusione.
Raccogliendo tutto il mio coraggio, incrociai il suo sguardo. “Will non si è ancora iscritto a calcio, c’è tempo fino a domani.” Non dissi che non poteva chiedere a suo padre, che era stato Will a convincermi a giocare, che non avrei mai messo piede in campo senza la sua presenza rassicurante al mio fianco.
Mio padre annuì con un sospiro, forse perché conosceva già tutti quei particolari, aprì il cassetto sotto la cassa e contò le banconote, poi me le mise in mano e aprì la bocca, come per parlare, ma qualsiasi cosa volesse dirmi rimase intrappolata dentro di lui. La comunicazione non era mai stata il nostro forte.
Da quella prima volta, ogni anno quota d’iscrizione e costo della divisa raddoppiarono, senza che ci fosse bisogno di chiederlo. Mio padre pagava per Will come se fosse normale, così come lo era riempire il suo piatto quando sedeva accanto a me nella cucina sul retro del pub, sempre a pranzo e spesso anche a cena.
Nessuno sembrava accorgersi che il signor Campbell trascurava il figlio al punto da ricordarsi a malapena di averne uno, ma con la sua silenziosa accettazione mio padre si assicurava che Will fosse almeno nutrito, di certo meglio di quanto non fosse prima che lo conoscessi.
Quando non eravamo sul campo ad allenarci o disputare una partita, giocavamo a calcio per strada, tra i binari sconnessi del vecchio scalo ferroviario oppure, se la pioggia era particolarmente fitta, nel corridoio freddo di casa mia, con troppe porte che si aprivano su stanze buie.
Eravamo selvaggi, alla costante ricerca di qualcosa che spezzasse l’angosciante monotonia che teneva intrappolati tutti quelli che ci circondavano. A Longmorn, un gruppo di case all’estremo nord della Scozia, ogni cosa pareva cristallizzata nella triste routine degli operai, che ogni mattina entravano nelle distillerie di whisky e passavano tutto il giorno a produrre quello stesso veleno che non vedevano l’ora di ingurgitare, una volta suonata la sirena che segnava la fine del loro turno.
Il tragitto tra la distilleria e il pub non era che uno spiacevole contrattempo per molti di loro, compreso il padre di Will. Oltre quella porta dai vetri colorati, falsamente allegri, trovavano il mio di padre, pronto ad ascoltare i loro mugugni e distribuire pacche sulle spalle, bicchieri colmi e sorrisi complici.
Odiavo mio padre, con il suo girovita in costante crescita e la convinzione che il suo fosse un lavoro indispensabile alla comunità, che sarebbe stata persa senza il proprio confessore ufficioso.
Odiavo anche mia madre, che era fuggita alla prima occasione, lasciandosi dietro una vecchia spazzola sul ripiano del bagno e un bambino di tre anni, con il naso sporco di moccio e il cuore spezzato.
Un pomeriggio, avremmo avuto sì e no dodici anni, la pioggia gelata batteva sul vetro della finestra e persino noi ci eravamo rintanati al caldo, in attesa che la tempesta passasse. Annoiato, Will si era messo a rovistare nei miei cassetti e aveva trovato una scatola che aprivo solamente una manciata di volte all’anno, per pochi dolorosi secondi.
“Dovresti fare come dice lei.” Le cartoline scorrevano piano tra le dita di Will, ricoperte di graffi per il costante scontrarsi con il mondo e i suoi abitanti più ottusi. “Sali su un treno e raggiungila.”
Non volevo rispondere, ma un sopracciglio si alzò sulla fronte del mio amico, arco nero su quella pelle sempre pallida. “Non mi ha voluto quando se n’è andata, perché dovrebbe farlo adesso?” Mai, nemmeno sotto tortura, avrei ammesso che era per lui che non avrei lasciato lo squallore di quelle quattro mura. Vivere senza Will sarebbe stato come soffocare pian piano, persino se avesse significato conoscere finalmente mia madre.
“Be’,” schioccò la lingua, mentre mi indicava con uno dei rettangoli di cartone che quella donna si ostinava a spedirmi, “nelle prime dice solo che gli manchi e ti vuole bene, ma in quelle di questi ultimi anni continua a ripetere che adesso vive in una casa più grande, che avresti la tua camera e amici con cui giocare.”
Mi raddrizzai sulla sedia, in cerca del coraggio di parlare, dire la verità, ma la voce mi rimase impigliata in gola, come sempre, e non ne uscì più di un sussurro: “Io ho già la mia camera.” Come poteva pensare che volessi lasciarlo? Il solo pensiero di non rivederlo ogni giorno mi straziava lo stomaco con artigli roventi. “E non ho bisogno di nessun dannatissimo amico,” aggiunsi con un inaspettato slancio di coraggio.
Il suo sorriso fu un lampo di malizia. “Perché hai me.” Scoppiò a ridere, ributtando nella scatola le cartoline e lasciandosi cadere all’indietro sul letto, un braccio a coprire gli occhi. “Ce ne andremo insieme, Sean, un giorno diremo addio ai nostri vecchi e non torneremo più in questa fogna.”
Non dovetti nemmeno rispondergli, quell’idea era la nostra unica speranza. Lo sarebbe stata per qualche altro anno, fino alla sera in cui Will mi trovò seduto al tavolo della cucina, impegnato in calcoli algebrici che non sarei mai riuscito a risolvere.
“Leggi, Sean.” Gli tremava la voce per l’emozione.
Un giornale sgualcito atterrò sopra il quaderno, un titolo lapidario a dominare la pagina. “Sono riusciti a ottenere un referendum,” lisciai la carta mentre leggevo, “cosa c’è di tanto straordinario?”
Will mi strappò il giornale dalle mani e lo sventolò come una bandiera. “Sarà l’indipendenza, non capisci?”
Raramente avevo visto l’azzurro dei suoi occhi acceso di tanto entusiasmo e quasi tutte le volte si era tradotto in noi che ci ficcavamo in guai seri, come quando avevamo staccato le spine della birra la sera di una finale della Coppa di Scozia. Potevo ancora sentire lo spostamento d’aria causato dalla mano di mio padre, prima che calasse a colpirmi. Aveva rischiato una rivolta nel pub, affollato da decine di tifosi arrabbiati, con le gole secche per il troppo cantare.
Era stata l’unica occasione nella quale mi aveva colpito, uno schiaffo che era bruciato sulla mia pelle più per la vergogna che per l’effettivo dolore. In quell’istante negli occhi di mio padre avevo letto una paura che lo rendeva un buon genitore, nonostante tutto, perché il timore di assomigliare a tutti quegli uomini ai quali serviva da bere era stato indice del suo amore per me. Forse non aveva il tempo di occuparsi veramente di un figlio, ma questo non significava che non mi amasse.
Gettarsi a capofitto nella causa scozzese divenne il nuovo scopo nella vita di Will: il kilt sostituì i jeans strappati e un pacco di volantini propagandistici scalzò il pallone da calcio dal suo zaino. Convertirmi era la sua ossessione, perché, sebbene lo seguissi come sempre, non credevo come lui che una Scozia indipendente potesse significare un nuovo inizio per noi.
Eravamo due ragazzini emarginati, figli di una povertà atavica, e lo saremmo rimasti per sempre, persino se un voto avesse “liberati dal giogo inglese”, come ripeteva di continuo.
Quando un politico scaltro decise di estendere il voto ai sedicenni, solamente per quel referendum, credetti seriamente che a Will sarebbe venuto un infarto: il suo sedicesimo compleanno cadeva poco prima del voto, quindi avrebbe potuto partecipare. Io pensai che fosse una fortuna essere nato un paio di mesi più tardi, perché da qualche tempo evitare di esprimere le mie preferenze era diventata la mia attività preferita.
*****
Mentre lui intraprendeva la sua crociata patriottica, io stavo comprendendo qualcosa su me stesso. Su di noi. Avevo questa massa di sentimenti confusi dentro di me, emozioni potenti che correvano nelle vene insieme al sangue e minacciavano di esplodere, di farmi esplodere.
Non potevo confessare a Will che lo amavo, non perché temessi che avrebbe significato la fine della nostra amicizia – lo conoscevo e sapevo che niente avrebbe mai potuto separarci – ma di sicuro qualcosa sarebbe cambiato, se gli avessi detto che, quando mi parlava della Scozia indipendente, io immaginavo di zittirlo con un bacio. Come avrebbe reagito se avesse scoperto che i miei sogni, quelli che mi facevano svegliare in uno stato di beatitudine, avevano avuto sempre e solo lui come protagonista?
Le dita lunghe e sottili, l’incavo delicato della gola, quell’ombra di barba scura sulle guance, la linea degli addominali sul ventre piatto, l’interno delle cosce muscolose, il profumo del suo respiro… Will era la mia ossessione.
Per scongiurare l’incombente esplosione decisi di compiere una follia, una notte durante la quale il bisogno di abbracciarlo mi stava facendo impazzire. Strappai un foglio da un quaderno e cercai di scrivere quello che provavo, a tradurre in parole la sofferenza fisica che mi tormentava.
All’inizio quelle frasi non avevano un destinatario, ma pian piano mi resi conto che stavo scrivendo una lettera a mia madre, tanto diversa dalle cartoline che lei continuava a mandarmi, quelle a cui non avevo mai saputo cosa rispondere, eppure colma del medesimo sentimento che trasudava dalle sue frasi tentennanti: come lei, anch’io sfuggivo la solitudine aprendo il cuore a qualcuno che era uno sconosciuto, anche se eravamo imparentati.
Ancora adesso non so perché imbucai quella prima lettera, quasi sfidando quella madre lontana a conoscermi per quello che ero veramente e abbandonarmi ancora una volta, come già aveva fatto quando se n’era andata di casa.
La sua risposta fu inattesa e sconvolgente. Pagine e pagine macchiate di lacrime ormai asciutte, testimoni di un sentimento che non credevo possibile un genitore potesse provare per me. Mia madre mi capiva, mi voleva ascoltare, mi amava. Voleva vedermi. Sapeva che quella scelta spettava a me, ma ripeteva più volte che lasciarmi insieme alla sua vita a Longmorn era stato il suo più grande errore e voleva rimediare.
A quindici anni la prospettiva di conoscere una madre che non ricordavo, che non vedevo da quando ne avevo tre, era spaventosa e insieme eccitante. Non sapevo cosa avrei fatto ma continuai a scriverle, senza mai osare contatti più diretti, imparando a conoscerla a distanza di sicurezza.
La vicinanza avrebbe comportato sofferenza, era inevitabile. Il mio amore per Will me lo stava insegnando fin troppo bene.
Forse per timore, forse per l’eccitazione sciocca di avere qualcosa di segreto, non dissi a nessuno di quello scambio di corrispondenza. Anche se, in realtà, c’erano solamente due persone alle quali avrei potuto confessarlo, data la quasi totale assenza di interazioni con altri esseri umani che caratterizzava le mie giornate.
Mio padre lo scoprì per caso, un pomeriggio, mentre smistava la posta. Ero seduto a fare i compiti su in casa, al tavolo della cucina nella quale non avevamo mai consumato un solo pasto, preferendo mangiare nel retro del pub, quando arrivò con una busta in mano e la appoggiò davanti a me, le dita che esitavano ad abbandonare la carta bianca.
“Ha smesso di mandarti cartoline.”
La donna che lo aveva lasciato, arrendendosi di fronte alla constatazione che per lui il pub era più importante di lei e della sua felicità, era un argomento che entrambi evitavamo. Persino la nostra somiglianza sempre più evidente passava sotto silenzio, ogni mattino vedevo riflessi nello specchio i miei capelli biondo scuro e gli occhi marroni, domandandomi se anche lei avesse quelle striature verdi attorno alle pupille. Non potevo chiederlo a mio padre e le uniche sue fotografie rimaste erano vecchie immagini sbiadite, istantanee di una ragazza troppo giovane con un bimbo paffuto tra le braccia.
“Ci scriviamo da qualche mese, lettere,” indicai la busta, sentendomi un completo idiota, “ci scriviamo delle lettere.”
Senza replicare a quella mia frase contorta, mio padre annuì e uscì dalla stanza, scegliendo come sempre la fuga invece di affrontare i sentimenti che entrambi non sapevamo come esprimere.
Non molto tempo dopo, anche Will apprese la novità. Entrò in camera mia proprio mentre le stavo scrivendo. “Cosa fai di bello?”
Arrossii violentemente a quella domanda innocente, perché stavo parlando proprio di lui in quelle righe, di quanto fosse meraviglioso passare del tempo in sua compagnia. “Io… niente,” balbettavo, vergognandomi della mia codardia: se fossi stato coraggioso gli avrei confessato il mio amore, incurante delle conseguenze. “Scrivo una lettera a mia madre.”
“Hai deciso di rispondere alle sue cartoline?” Il sorriso radioso di Will mi fece sentire ancora più in colpa. “Bene, sono davvero felice che tu abbia deciso di darle una possibilità.” Si buttò sul mio letto, come faceva sempre, e accavallò le gambe alle caviglie, aprendo quasi al massimo le pieghe del kilt. “Spero che tu le abbia parlato di me.”
Non poteva nemmeno immaginare quanto. “Le ho raccontato delle tue discutibili scelte in fatto di moda,” risposi ridendo.
“Miscredente.” Will sbuffò, lisciando la stoffa dell’indumento incriminato.
Scherzavamo sulla sua decisione di indossare il kilt, ma sapevo che entrambi stavamo ripensando a come aveva reagito suo padre, la prima volta che gliel’aveva visto addosso. A quanto pareva, il signor Campbell era l’unico scozzese purosangue a disprezzare l’indumento tradizionale del proprio paese, al punto da aver cercato di strapparlo di dosso al figlio.
Dopo il loro scambio di opinioni patriottiche, Will si era cambiato per due settimane dietro di me, agli allenamenti di calcio, per nascondere agli occhi dei nostri compagni i lividi che aveva sotto i vestiti. Ce n’era uno, sul fianco, che ricordava in modo preoccupante la suola di una scarpa.
Se chiudevo gli occhi, lo vedevo ancora chiaramente. E sentivo lo stomaco stringersi per il desiderio di lasciarne uno identico sul volto di quel maledetto bastardo.
*****
La notte dopo il voto resterà per sempre incisa nella mia memoria.
È impossibile dimenticare il momento che ti ha reso un adulto.
Will era impegnato al seggio, perciò non lo vedevo dalla sera precedente, ma gli aggiornamenti in tempo reale che stavo seguendo in televisione non promettevano bene. Era sempre più evidente che la notevole affluenza non stava corrispondendo a una vittoria degli indipendentisti. Dopo l’impegno e l’entusiasmo che aveva riversato in quella causa, temevo come avrebbe reagito di fronte a una sconfitta.
Di sotto, come in ogni altro locale della Scozia, il referendum era l’unico argomento di conversazione, anche se ero pronto a scommettere che in realtà sarebbero stati pochi quelli felici di una vittoria del sì. Erano scozzesi quando si trattava di bere birra e tifare una squadra di calcio, ma guadagnare l’indipendenza avrebbe significato perdere la loro principale fonte di lamentele: odiare gli inglesi e incolparli di tutte le loro sfortune, dopotutto, per loro era una ragione di vita, soprattutto dopo che le distillerie avevano iniziato a chiudere e lo snodo ferroviario era stato dismesso. Ormai Longmorn era diventato una sorta di dormitorio per quelli che lavoravano nella vicina città di Elgin, un paese destinato a svanire nei fumi di whisky.
Mi addormentai sul divano con la tv accesa e mio padre, dopo aver chiuso il pub, non si preoccupò né di spegnerla né di svegliarmi per mandarmi a letto, scegliendo come faceva sempre più spesso di passarmi accanto senza parlare.
L’assenza di comunicazione tra noi era diventata quasi assoluta in quell’ultimo anno, da quando lui aveva capito che l’attività di famiglia non avrebbe mai occupato il primo posto nella mia lista di interessi. Spezzare la tradizione dei McAllister pareva essere un peccato imperdonabile ai suoi occhi, al punto che iniziavo a chiedermi se per lui sarebbe stato in qualche modo più facile accettare il fatto che ero innamorato di un altro ragazzo.
Sempre che io decidessi, un giorno o l’altro, di dirglielo.
Dopo averlo confessato a Will, ovviamente.
Non sarebbe successo tanto presto.
Lo squillo del telefono mi svegliò, il rumore assordante nel silenzio della notte. Rotolai giù dal divano prima di essere completamente sveglio, il cuore in gola per la convinzione irrazionale che una chiamata a quell’ora significasse per forza che era accaduta una disgrazia.
“Sean?” La voce soffocata era a malapena udibile.
“Will,” tremavo, quelle non potevano essere buone notizie, “cosa è successo? Stai bene?” In sottofondo, il mormorio della televisione mi informava che la Scozia molto probabilmente non avrebbe conquistato la tanto agognata indipendenza.
“So che stavi dormendo, ma potresti venire a prendermi?” Un colpo di tosse gli spezzò il fiato.
Quel sentimento indefinito si stava trasformando in paura vera, tanto che il sudore aveva reso viscida la cornetta nella mia mano. “Certo che posso venire, dove sei? Cos’è successo?”
Tossì ancora, un suono secco e doloroso. “Sono a casa, volevo venire io ma…” C’era qualcosa di strano nella sua esitazione, un timore che non gli era mai appartenuto. “Questa volta è stata davvero brutta, Sean, sono in cucina ma non posso uscire, io… penso che lui mi stia aspettando.”
Non parlavamo mai di quello che accadeva tra le mura di casa sua, mi limitavo a passargli il ghiaccio in silenzio quando arrivava e crollava sul mio letto. Rispettavo la sua dignità e non chiedevo spiegazioni, ma lo obbligavo a dormire da me sempre più spesso, cercando di tenerlo lontano il più possibile dal pericolo e proteggerlo come potevo. Will era un ragazzo minuto, privo dei muscoli che, invece, ingrossavano le spalle e le braccia di suo padre. Come riuscisse a incassare i suoi colpi era un mistero per me.
Con quelle parole, tuttavia, aveva appena infranto il tacito voto di silenzio che governava la nostra amicizia. “Chiamo la polizia, adesso li mando lì.”
“No, no!” Non lo avevo mai sentito così spaventato. “Vieni solo a prendermi, non mi toccherà se ci sarai anche tu.”
Acconsentii a denti stretti e mi fiondai fuori di casa, scartando l’idea di chiedere l’aiuto di mio padre, che si era sempre comportato come tutti gli altri e aveva chiuso gli occhi di fronte ai lividi sfoggiati fin troppo spesso da Will.
Corsi per le strade deserte del paese, il freddo della notte autunnale che mi disturbava appena mentre mi affannavo per raggiungere l’amico che sentivo di aver lasciato in balia di un mostro, l’amore della mia vita che aveva bisogno di me.
Quando arrivai, tutte le luci erano spente e la porta d’ingresso aperta a metà. Solo quello gridava pericolo, ma io entrai cercando di non fare rumore e mi guardai intorno. Will aveva detto di essere chiuso in cucina, ma per raggiungerla dovevo superare l’ingresso, con la scala che portava al primo piano e l’arco buio oltre il quale si apriva il salotto. Non sapevo dove fosse suo padre, né se si trovasse ancora in casa. Il cuore mi rimbombava nelle orecchie, unico suono nell’abitazione all’apparenza deserta.
Sgattaiolai fino alla porta della cucina e sussurrai: “Will, apri, sono io.”
I cardini cigolarono leggermente e il pannello di legno si spostò di qualche centimetro. La vista del suo volto nello spiraglio di luce che trapelò mi strappò un gemito. Lividi e tagli lo rendevano una maschera grottesca. Scivolai dentro e subito Will si affrettò a richiudere, girando più volte la chiave.
Incapace di frenarmi, allungai le braccia e lo attirai contro il mio petto, stringendolo appena per il timore di fargli del male. Ero sempre stato più alto di lui, ma solo quando annidò il viso sotto la mia gola mi resi conto che ormai lo superavo di tutta la testa. Non mi ero mai sentito più forte di quel momento, né più debole, mentre sostenevo tutto il suo peso e lo cullavo piano.
“Oddio, amore, mi dispiace così tanto.” Gli posai un bacio sulla fronte e all’improvviso rimasi paralizzato, realizzando quello che mi era appena sfuggito.
Will alzò lo sguardo verso di me, con un sopracciglio spaccato e la palpebra gonfia, macchiata di sangue rappreso. “Non è stata colpa tua.” Si tastò con la punta della lingua il labbro inferiore attraversato da un taglio e fece una smorfia, come se parlare fosse doloroso. “Ero arrabbiato per quel maledetto referendum e sono stato stupido, gli ho risposto invece di starmene zitto quando ha riattaccato con la storia del kilt.”
Sembrava che non si fosse accorto di come l’avevo chiamato, della mia involontaria confessione. Da codardo, scelsi anch’io l’ignoranza. “Non è stata nemmeno colpa tua.” Non ero una persona violenta, ma stavo ringhiando, tanta era la rabbia che mi scatenava vederlo in quello stato. Gli sforai il sopracciglio, che sanguinava ancora. “Ho paura che dovrai farti mettere dei punti stavolta.” Gli cinsi il volto con la mano, pregando che non mi scacciasse, perché avevo bisogno di sentirlo, di convincermi che stesse bene.
Appoggiando una mano sulla mia, Will sospirò a occhi chiusi. “Non posso andare all’ospedale, lo sai.”
Era come se quell’incubo si fosse trasformato all’improvviso in un sogno, non mi importava quasi più che fuori dalla porta molto probabilmente suo padre ci stesse aspettando con le peggiori intenzioni. Tutto quello che esisteva al mondo era Will, che mi stava stringendo la mano e lasciava che lo abbracciassi.
“Dovresti denunciarlo.”
Will riaprì gli occhi e la paura dilatò le sue pupille fin quasi a coprire di nero tutto l’azzurro dell’iride. “Non posso andare alla polizia, ho resistito per tanti anni e posso sopportarlo ancora per due.” Si portò le nostre mani congiunte al petto. “A diciotto anni potrò andarmene senza problemi, non importerà più a nessuno quello che decido di fare della mia vita.”
“Ma lui ti sta facendo del male adesso.” Il nodo in gola mi rendeva difficile parlare, ma ricacciai indietro le lacrime e mi sforzai di fargli capire quanto stesse sbagliando: “Non puoi rischiare di restare sotto il suo tetto per altri due anni.”
“Mi porteranno via se lo denuncio,” sussurrò Will. “Non mi permetteranno più di vederti.” All’improvviso sembrava un altro ragazzo, totalmente diverso dall’uragano di entusiasmo ed energia del quale mi ero innamorato. Tremava, aggrappandosi alla mia mano con una forza tale che le nocche erano sbiancate. “Tu sei tutto quello che ho, Sean, tutto quello che conta.”
Non mi aveva mai guardato così, oppure, se l’aveva fatto, io ero stato talmente cieco da non accorgermene. La sfida presente nei suoi occhi era la solita, ma non era rivolta come sempre verso tutto il resto del mondo, che l’aveva sempre disprezzato e deriso. No, questa volta stava sfidando me, chiedendomi se ero abbastanza coraggioso da accogliere quello che mi stava offrendo.
Ci incontrammo a metà strada, labbra che sfioravano altre labbra, respiri che si intrecciavano esitanti, anime che trovavano il coraggio di rivelarsi.
Non ero mai stato baciato, ma sono convinto che nessun altro ragazzo abbia mai sperimentato l’intensità e l’amore che Will riversò nel nostro primo bacio. La paura iniziale si trasformò subito in dolcezza, con la sua lingua che tastava la mia e si imponeva, dettando un ritmo incalzante che ci lasciò troppo presto senza fiato.
Si toccò il taglio sul labbro e mi sentii uno schifo per avergli fatto male. Prima che potessi scusarmi, Will sorrise con un guizzo del suo consueto spirito. “Ne valeva la pena.”
*****
Uscimmo dalla cucina tenendoci per mano, io che facevo strada e lui quasi rannicchiato dietro di me. Respiravamo a stento per la paura di attirare su di noi attenzioni indesiderate. Se eravamo fortunati, suo padre era collassato da qualche parte, sul divano del salotto o forse nella camera in cima alle scale.
La buona sorte ci assistette fino a metà del percorso verso l’uscita e la salvezza, quando una voce sarcastica arrivò dal buio alla nostra destra.
“Che bella coppia di ragazzine.” Un fruscio di stoffa ci rivelò che si stava alzando dal divano. “Una ha persino la gonna.”
D’istinto mi trascinai Will più vicino, nascondendolo dietro di me, ma entrambi eravamo come paralizzati e, invece di correre fuori, restammo stupidamente fermi al centro dell’ingresso.
Il signor Campbell emerse dalle tenebre del salotto come il mostro che era, con gli abiti sgualciti e le nocche ancora sporche di sangue per aver colpito Will. Puzzava di birra e sembrava muoversi a fatica, ma non dovevamo farci ingannare: era sempre in quelle condizioni quando si scatenava contro il figlio e l’ubriachezza non l’aveva mai rallentato.
Ci fissò per qualche secondo, storcendo la bocca. “Andate da qualche parte?”
Trassi un respiro, pregando di apparire più sicuro di quello che mi sentivo. “Lo sto portando all’ospedale, questa volta lei ha esagerato e la polizia verrà a cercarla.” Will mi strizzò la mano ma restò zitto, forse intuendo che stavo mentendo.
La risata di suo padre fu sprezzante. “Per aver insegnato a quella checca che le gonne sono per le femmine?” Puntò sul figlio uno sguardo disgustato. “Non credo proprio.”
“È un kilt, cazzo!” Sbottò Will. “Lo portano tutti.”
“Non come te, stronzetto.” Avanzò verso di noi, che subito ci spostammo verso la porta ancora aperta. “Lo so cosa fate, voi due, sempre insieme.”
Non si era mai sbagliato tanto.
L’ingresso era piccolo e, se si fosse avvicinato ancora, ci avrebbe intrappolati, perciò, prima che muovesse ancora un passo, lasciai la mano di Will e mi lanciai contro suo padre mentre gridavo: “Scappa!”
Colto alla sprovvista, il signor Campbell incespicò all’indietro e, sapendo che se mi avesse messo le mani addosso mi avrebbe distrutto, io mi voltai di corsa e andai a sbattere contro Will, che ovviamente non mi aveva obbedito.
Corremmo fuori mano nella mano, le gambe che pompavano come quando attraversavamo il campo da calcio per strappare il pallone agli avversari.
La voce arrabbiata del signor Campbell ci seguì nella notte: “So dove trovarvi, frocetti!”
Non stava minacciando a vuoto, l’odio che aveva dipinto in volto era stato fin troppo evidente. Mentre scappavamo verso casa mia, l’unico posto dove saremmo potuti andare, mi affannai per trovare un altro rifugio, qualcosa di sicuro per Will e, a quel punto, anche per me. Non impiegai più di due secondi per capire che avevamo solamente una possibilità.
Rallentammo quando arrivammo in vista dell’insegna del pub, che ondeggiava leggermente nella brezza notturna con la scritta MacAllister e figli che brillava dorata alla luce di un lampione poco distante.
“Mi verrà a cercare,” ansimò Will, tenendosi una mano sul fianco mentre recuperava fiato. “Sa benissimo che mi nasconderò qui.”
Annuii, la mente impegnata a fare piani per il nostro futuro. “Non ci troverà, perché ce ne saremo già andati.” Sorrisi della sua espressione stupita. “Prenderemo il primo treno per Edimburgo e andremo da mia madre.”
Dimenticando che era tagliato,Will si morse il labbro inferiore, come faceva sempre quando stava riflettendo, poi trasalì per il dolore. “Sei sicuro?” Non l’avevi mai visto così spaventato. “Non ci caccerà via quando scoprirà cos’è successo?”
Era il momento di essere coraggioso. “Io… lei… lei lo sa, quello che provo… che sono innamorato di te.” Ecco, l’avevo detto e non ero morto, né ero stato colpito da un saetta divina.
Gli occhi di Will si illuminarono, l’azzurro acceso di stupore, e sorrise con un accenno della consueta malizia. “Sei innamorato di me?” Intrecciò insieme le dita delle nostre mani, che non si erano ancora staccate da quando eravamo fuggiti da casa sua. “Pensavo che non te l’avrei mai sentito dire.”
Aggrottai la fronte, confuso. “Tu… perché?”
Si alzò sulle punte dei piedi e mi solleticò la punta del naso con il proprio. “Secondo te?” Stretto nel suo giubbino di pelle sdrucita, fu attraversato da un tremito, ma non credo fosse per il freddo.
Baciarsi per strada, sotto un lampione, quando con tutta probabilità suo padre ci stava già venendo a cercare, non era la più brillante delle idee, ma in quel momento non ci importava. Non esisteva niente altro al mondo oltre alla bocca di Will contro la mia, il calore del suo corpo tra le mie braccia e l’eccitazione crescente che pulsava tra di noi.
Quando ci separammo, di nuovo troppo presto, non ero il solo a dover camminare con attenzione.
Prima non avevo chiuso a chiave, troppo preoccupato per curarmene, perciò riuscimmo a sgattaiolare senza problemi su per la scala che portava all’appartamento sopra il pub. Presi subito garze, cerotti e disinfettante per occuparmi delle ferite di Will ma, euforici per la gioia della nostra reciproca scoperta, dimenticammo di fare piano, ridacchiando tra un bacio e l’altro.
Mio padre ci trovò in cucina, Will seduto sul tavolo e io incuneato tra le sue gambe, che tentavo di ripulire il taglio sul suo sopracciglio mentre lui mi mordicchiava il collo. Non so cosa mi aspettassi, di certo non una ripetizione di quanto avvenuto con il signor Campbell, ma nemmeno il suo laconico: “Ti servono dei punti?”
Scivolando giù dal tavolo e sistemandosi nervosamente il kilt, Will scosse la testa. “No, grazie, non ce ne sarà bisogno.”
Io non ero d’accordo, ma il mio parere in merito era già stato ignorato in precedenza, quindi presi la mano di Will, lottando contro la sua ritrosia, e fissai mio padre. “Andiamo a Edimburgo.” Non lo stavo sfidando a fermarci, non proprio, ma per una volta avrei voluto che almeno provasse a fare il genitore.
Valutando in silenzio l’intera situazione, lo stato del volto di Will, le nostre mani spasmodicamente congiunte, il modo protettivo in cui me lo stavo tenendo accostato al fianco, mio padre si limitò ad annuire. “Vi devo accompagnare alla stazione?” Non chiese chi ci fosse a in città né perché avessimo scelto proprio quella meta, conosceva l’indirizzo dal quale da anni mia madre spediva le proprie missive. Accettò passivamente di perdermi, così come aveva fatto con lei tanti anni prima, anche se potevo vedere il dolore nei suoi occhi.
Desiderando finalmente di più per me stesso, sapendo di meritare qualcuno che mi amasse e scegliesse me, io sorrisi. “Sì, grazie.”
Mio padre uscì senza aggiungere altro e sentii Will rilasciare il respiro che aveva trattenuto. “È stato facile,” mormorò.
Appoggiai la fronte contro la sua, sospirando. “È questo il problema con lui: rende sempre tutto troppo facile.”
Sorridendo, Will mi cinse il viso con le mani. “Va bene così, ci sono già troppe cose difficili al mondo.” Mi posò un bacio leggero sulle labbra. “Grazie, Sean.”
“Non potrei mai abbandonarti, Will, tu sei tutto quello che conta.” Lo abbracciai stretto, sperando che capisse quanto ciò fosse vero, perché lo amavo e da quel momento in poi non avrei mai smesso di occuparmi di lui.
Molti pensano che quella notte abbia rappresentato una sconfitta per la Scozia, che perse la possibilità di diventare indipendente, ma per me sarà sempre il momento in cui ho conquistato la libertà, e l’amore della mia vita.
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Will e Sean vi aspettano nel racconto Christmas night, che trovate nell’antologia gratuita “Racconti sotto l’albero 2015”, AA. VV. della Triskell Edizioni