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Dentro il libro: “Breathe”di Grazia Di Salvo.

 

«Hai detto che tua sorella soffriva di attacchi di panico.» «Sì, sono preparato,» lo rassicurò Nate. «Anche lei si svegliava spesso di notte e veniva da me per avere un po’ di conforto.» «Ne è uscita?» Nate si bloccò prima di rispondere: era una domanda volta a valutare la sua preparazione? No, Nathan sembrava… spaventato. Gli occhi, si accorse, si erano assottigliati e sembravano più distanti, pensierosi, forse… tristi. Schiuse le labbra per parlare ma, prima di poterlo fare, su di esse si dipinse un sorriso dolce, intenerito. Doveva essere difficile: ricordava quel che aveva passato sua sorella, ma non credeva che avrebbe mai capito. Per fortuna, probabilmente.

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Osservò il volto di Nathan passare lentamente dallo stupore all’indecisione e, infine, alla gratitudine. Il sorriso che gli rivolse fu il più bello che avesse mai visto, dolce, affettuoso. Un sorriso che si regala a un compagno o familiare. Tentò di calmarsi mentre quell’espressione mandava in subbuglio mente, cuore e cazzo tutti insieme.

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Nate si sistemò e fece per uscire dalla macchina, sussurrando un: «Ci sentiamo.» Prima che potesse farlo, però, Nathan gli afferrò un braccio – ancora una scossa al basso ventre, più forte delle altre – e lo attirò verso di sé, posandogli le labbra sulla mandibola, appena sotto l’orecchio. Il lobo venne solleticato dal naso perfetto dell’uomo; Nate ricevette un lieve bacio a fior di pelle, la bocca morbida e calda. Tremendamente calda. «A lunedì, bel culetto.» Un sussurro contro il proprio orecchio e Nate non riuscì a trattenere un gemito. Ci provò, con tutte le sue forze, ma non ci riuscì. Quell’uomo sembrava fatto di sesso, tanto che gli risultava impossibile pensare alla fragilità che vi aveva letto pochi minuti prima.

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«Era una foto così terribile?» lo stuzzicò, rivolgendogli quel suo ghigno da predatore. Funzionò perché quel rossore toccò livelli epici. « No! » Una risposta roca, quasi stridula, disperata. Gli occhi scuri di Nate balenarono su di lui supplichevoli, lucidi, uno sguardo pieno di tensione sessuale, desiderio e, allo stesso tempo, una richiesta di lasciar  perdere il discorso, di non incasinarlo. Deglutì, valutando l’idea di fare esattamente l’opposto. Quello era lo sguardo di chi chiedeva di essere scopato soltanto per una maledettissima foto su di un giornale, non era quello che ci si sarebbe aspettato da una persona che non aveva alcuna intenzione di finire a letto con lui. Aveva fatto male i calcoli? No, lo so come sono fatti quelli come lui. Se ne andrebbe. Sospirò, sopprimendo l’eccitazione dietro a una risata roca e amara. «Grazie.»

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Il suo datore di lavoro uscì dalla sua camera con addosso un paio di jeans stretti che gli fasciavano  perfettamente i muscoli delle gambe, una maglia nera che gli dava un’aria elegante e un paio di occhiali da sole. I capelli erano ordinatamente pettinati all’indietro e gli accarezzavano la nuca ricadendo sul collo e sul trapezio in bella mostra. La pelle era lucida, come se avesse usato qualche prodotto per renderla così… Appetibile. Stava già iniziando a pensare a come l’avrebbe volentieri trascinato in una stanza per spogliarlo e mordere ogni centimetro di quella perfezione quando lui lo sfiorò, facendogli un cenno per farsi seguire verso l’esterno. Dio, l’avrebbe seguito dappertutto se gli avesse permesso di succhiargli il… No, Nate, è il tuo datore di lavoro. Ti prego, ti prego Nate Abraham, ti prego… Aveva un’erezione. Maledizione, aveva un’erezione. Lavorava per l’uomo più bello che avesse visto, lo stava seguendo verso la sua macchina perfetta pieno d’aspettative e aveva una fantastica erezione.

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«Arrivo,» mormorò quando si sentì in grado di farlo. In risposta, Nate premette la spalla contro la sua e volse appena il capo nella sua direzione. Lo stava guardando: che genere d’espressione era? Scocciata? Divertita? Derisoria? Cedette all’impulso di scoprirlo, nonostante la paura nel poter leggere qualcosa che l’avrebbe fatto sentire ancor più patetico. Gli stava sorridendo, ma non era un sorriso di scherno. Era un sorriso dolce, delicato, comprensivo. Era un regalo che lo fece tranquillizzare, che sciolse una scia di muscoli annodati che sentiva percorrergli la spina dorsale e il petto, fino al ventre. Era bellissimo.

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Quando i loro sguardi si incontrarono, negli occhi blu e profondi di Nathan c’era un miscuglio di emozioni contrastanti. Stupore, perplessità, confusione ma anche gratitudine, tranquillità e qualcosa che Nate non voleva tradurre come affetto. Se l’avesse fatto avrebbe dovuto ammettere che anche nei suoi occhi, probabilmente, c’era la stessa cosa.

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Ira, irritazione e vergogna. Gelosia – sì, maledizione, gelosia! – e, infine, eccitazione e desiderio. Nathan era capace di fargli provare tutte quelle sensazioni con un paio di sguardi e qualche parola accostata distrattamente ad altre in frasi volte soltanto a farlo reagire. Lo sapeva, sapeva che ce l’aveva con lui mentre parlava con Kate, sapeva che lo stava punendo per le sue risposte e sapeva che era soltanto un modo di provocarlo e vedere cosa avrebbe fatto. E sapeva, più di ogni altra cosa, che gli aveva dato esattamente quel che voleva. Tremava, mentre aspettava che si cambiasse nel tendone allestito per i modelli, e non capiva se per la rabbia o per l’eccitazione e lo smarrimento provocati dalla bellezza di Nathan. Un Nathan sistemato, con bei vestiti e sguardo accattivante pronto per esser catturato dalla macchina fotografica. In un attimo di incoscienza aveva pensato che nessuno, né la modella che posava con lui né il fotografo né Kate, avesse il diritto di rivolgergli anche soltanto uno sguardo. Poi si era accorto che neanche lui aveva quel diritto e il suo subbuglio interiore era diventato tanto grande da sconvolgerlo.

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Per gli altri era sempre tutto così elementare, così semplice da ridurre in poche parole, così facile da sminuire e rendere insignificante. Era così semplice eliminare il vuoto che aveva dentro, la paura, il terrore di svegliarsi e capire che stava per morire anche lui, che sarebbe andato all’inferno prima ancora di aver ricevuto uno sprazzo di paradiso. Era così facile pensare che dietro ai suoi sorrisi non ci fosse nient’altro che il capriccio di non rimanere da solo. Perché era quello, no? Un capriccio: aveva i soldi per realizzarlo e non si era chiesto neanche per un attimo se fosse lecito, se poteva permetterselo. Ripiegato contro le pareti della doccia, dove nessuno poteva fargli nulla, dove non avrebbe ricevuto sguardi di sufficienza o parole di circostanza, poteva essere tutto. Poteva permettersi di crollare, poteva permettersi di non pensare al mondo che gli scivolava addosso, al subbuglio interiore, agli occhi freddi di Nate mentre gli diceva chiaramente che per lui non era altro che lavoro. Faceva male. Non perché non lo sapesse, no. Lo sapeva bene che era tutta finzione, che non c’era nessuno che sarebbe rimasto al suo fianco soltanto perché gli faceva piacere, perché voleva salvarlo. Lo sapeva che, in fondo, i sorrisi di Nate erano tutti rivolti ai soldi e non a lui. Lo sapeva che non avrebbe dovuto affezionarsi al suo bel visino soltanto perché era gentile.

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Nate si accorse presto che si trattava di quello: in venticinque anni non aveva mai provato una sensazione simile. Certo, c’era il desiderio, l’eccitazione, la frustrazione di volerlo e non poterlo avere, ma passava tutto in secondo piano quando quella molla scattava, quando erano insieme e a nessuno, né a lui né a Nathan, importava altro. Era una brezza leggera, un attimo di respiro. Diceva di non sapere come fare ma Nate credeva che Nathan fosse l’unico in grado di mostrargli come respirare realmente. Se c’era lui tutto era migliore, tutto acquistava senso, tutto era perfetto.

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«Credo che cerchiamo cose diverse,» rispose. «Sei tipo da sesso occasionale, vero? A me non piace. Tu mi piaci, ma cerchiamo cose diverse.» «Cazzo, un mese e già mi conosci così bene? Ma che bravo.» La frase era impregnata di sarcasmo e irritazione. Sentì Nate sospirare mentre lui si voltava e camminava verso la macchina. «Nathan, aspetta…» «Lascia stare,» lo interruppe, mentre raggiungeva la vettura. Aveva voglia di buttarsi a letto e non pensare più a nulla, Nate poteva anche fottersi. Aveva già fatto troppi sforzi per lui. «Non volevo offenderti,» continuò Nate. «Nathan…» . Cercò le chiavi  della macchina nella tasca, ignorando i richiami di Nate finché non lo sentì urlare, rasente l’isteria: « Ho paura, maledizione! » Quando si voltò a guardarlo il suo volto era sofferente e supplichevole. «Di che cosa?» «Di… Non lo so!» disse Nate, mentre distoglieva lo sguardo e faceva qualche passo, guardando il terreno con frustrazione. «Di te, di me, di quello che provo! Non è facile, non mi piace mischiare il lavoro con la vita privata, non mi piace essere in questa situazione, non mi piacciono le persone che cercano soltanto sesso!» «Ma io non cerco soltanto sesso da te, Nate!» ribatté. Aveva iniziato a gridare anche lui: per fortuna erano da soli, in mezzo alla natura, senza l’ombra di alcuno spettatore. «Non mi sarei dichiarato così! Voglio soltanto una possibilità.»

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Sul suo volto permaneva quel sorriso felice e stupido, come se finalmente la vita gli avesse offerto qualcuno per cui valesse la pena mostrarlo. Aveva passato così tanti anni a cercare una persona che gli facesse battere il cuore a quel modo, rifugiandosi in uomini che all’apparenza sembravano perfetti ma che, in realtà, erano tutt’altro. Nathan non era perfetto, ma era quello che, confrontato con gli altri, lo faceva sentire meglio. Era quello per cui non sentiva sbagliato provare qualcosa nonostante fosse quello che, invece, era più sbagliato amare.

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E, infine, avrebbe dovuto baciarlo? Voleva baciarlo. Lo voleva davvero tanto. Quando se l’era trovato davanti, però, a stretto contatto contro il suo corpo che fremeva, reagiva al calore dell’altro, lo pregava di sbatterlo al muro e rinchiuderlo tra le sue braccia, il suo cervello era andato in corto circuito. Non aveva più capito nulla e la paura si era impossessata di lui. Nathan aveva paura. Di ferirlo, di deluderlo, di spaventarlo a sua volta. Più di ogni altra cosa, aveva paura dei propri sentimenti e di quelli che leggeva negli occhi di Nate. Erano veri: tanto da disorientarlo, lasciarlo privo di forze, privo di parole. Aveva paura perché, dopo quel che era successo a Cassian, Nate era il primo spiraglio di luce, caldo, confortevole… E aveva il terrore che, a breve, l’avrebbe perso.

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E allora si accorse che voleva piangere e che una lacrima gli stava già bagnando una guancia. «Merda,» sussurrò, portando una manica ad asciugarla, con rabbia. Non doveva piangere, non aveva senso soffrire ancora per quel tipo di questioni, non aveva senso mostrarsi tanto debole agli occhi di Nathan che, invece, lo stringeva così possessivamente da rendersi sempre più grande e imponente. Altro che attacchi di panico: era Nathan quello forte, lui era quello che cadeva in pezzi. Era soltanto doloroso aver creduto di poter atteggiarsi a uomo affidabile. «Cazzo,» mormorò ancora, non riuscendo a frenare le lacrime. Sono un fallito, ecco cosa. Aveva ragione lei. «Ehi, ehi, ehi,» lo richiamò Nathan, prendendogli il volto tra le mani e costringendolo a guardarlo. Con gli occhi appannati era difficile. «Calmo, okay? Va tutto bene, non devi niente a nessuno. Non hai più nulla da spartire con loro.» «Lo so!» rispose, scuotendo il capo. «Sto bene! È solo… Mi riprendo subito!» «Non voglio che tu ti riprenda,» ribatté Nathan. «Voglio che tu pianga e ti sfoghi quanto ti pare e voglio che tu lo faccia con me. » Quando scosse il capo, Nathan lo prese per le spalle, scuotendolo. «Non sei fatto d’acciaio, Nate. Soltanto perché il tuo lavoro richiede che tu sia “quello forte”, non significa che non possa crollare.»

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«Perché lui?» Questa era una domanda difficile. Nathan non lo sapeva: non aveva la più pallida idea di come avesse fatto a innamorarsi proprio di Nate. Non aveva nulla di speciale, agli occhi degli altri: non era un modello, non era famoso, non era stravagante. Era un ragazzo normalissimo con un sogno, un lavoro e un piccolo appartamento in città. Però sapeva respirare.  Sapeva respirare e riusciva a far sì che anche lui respirasse. Qualsiasi cosa avesse fatto, qualsiasi problema avesse avuto, Nathan sapeva che, con Nate, era al sicuro da tutto e tutti. Era un rifugio. «Perché con lui riesco a respirare.»

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Poi si guardarono. Entrambi avevano il fiatone, il torace di Nathan si alzava e abbassava ritmicamente, veloce quanto il suo. Erano sudati e i capelli del compagno gli stavano appiccicati al volto. In un gesto tenero gli spostò una ciocca dietro le orecchie, liberandogli la visuale, e gli sorrise dolcemente. Quando Nathan ricambiò quel sorriso, se ne accorse: non stavano facendo sesso. Quello non era sesso, nonostante fossero su di una macchina, all’aperto, nonostante i gesti erotici che entrambi avevano accentuato, nonostante la malizia con cui Nathan aveva continuato a guardarlo.  Non era sesso. Era amore, spaventoso, terribile, meraviglioso amore. Sentiva il cuore scoppiare davanti a quella consapevolezza.

***

«Tu non puoi costringere Nathan ad amarsi, Nate,» continuò Sam, gentilmente. «Ma puoi fare una cosa meravigliosa per lui: puoi amarlo. Con tutto te stesso. Puoi amarlo così da fargli capire che non è tutto sprecato, che se tu lo ami significa che c’è qualcosa di bello in lui, che può farselo bastare e può imparare da te quello che lui non riesce a fare.» Quando Sam tirò fuori dalla tasca un pacco di fazzoletti e glielo porse, si accorse che aveva gli occhi lucidi. Lo accettò con un cenno del capo, incapace di liberarsi del nodo alla gola, e gli sorrise. Non si era accorto del momento in cui aveva iniziato a far male. «Vedrai che ce la farete. Non credere a chi ti dice che l’amore non esiste: l’amore muove il mondo.»

***

C’erano un sacco di parole non dette tra di loro, ma sembrava che non importasse. Nel silenzio di quella stanza – che Nathan scoprì essere quella di Nate – non c’era bisogno di altro: soltanto della sensazione dei loro corpi abbracciati, le dita di Nate che si muovevano delicate e dolci tra i suoi capelli, gli sguardi concatenati che non si spostavano. Ti amo. Ci aveva messo un’infinità e adesso gli sembrava addirittura strano pensare che fino a quel momento non era riuscito a dirglielo. Erano parole terribilmente naturali, giuste, perfette. Lo capiva da ciò che provava nel dirlo e nel sentirlo e dall’espressione di Nate ogni volta che glielo diceva. Si sentì in colpa a non aver risposto prima alla sua dichiarazione, ad averlo lasciato solo nel silenzio dell’incertezza. Non avrebbe più commesso lo stesso errore.

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Qui la nostra recensione.

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StaffRFS